La lingua ferita e dissonante, di Monica Maggiore
Un gioco di parole per inventare una lingua libera, liberatoria e liberante. “Il dolor mei mundique non poteva essere reso con una lingua 'inverbante', che cioè non significasse di più, ancora e altro. Ci voleva una lingua ‘ferita’ azzoppata bucata ‘asmatica’ ‘cardiaca’ squilibrata dissonante, come la mia anima, come era il mondo (come è il mondo ancora)”. Verso l’at-tendere è la seconda raccolta di poesie di Walter Vergallo con testi elaborati negli anni tra il 1985 e il 1991. La sua è una “poetica del senza”, un linguaggio complesso di intrecci grammaticali che alleggeriscono i carichi emotivi degli argomenti, un microcosmo di esseri a cui cerca di dare voce. Una libertà di parole che nasce da osservazioni umili e ascolto sottile, scoprire e liberare mettendo in dialogo il “qualunque di cosa o d’uomo”: “Sa la scrittura l’altro della cosa? / il dentro-il prima-il dopo- / e l’infine-parola? / avrà il rebus babelico / coriandoli di / senso? Potrà la pietra farsi segno?… La luce s’offre tra le foglie / di cespugli alfabetici / basillabando / balbettando / soffre / ermafrodito ossimoro; / forse incellulisce / llucisce. Da dove / per dove / il nostro pendolare?”. Un vocabolario personalissimo d’esperienza e considerazioni marginali accompagnano questo secondo tempo di ricerca e sperimentazione, così come nel gioco ironico autobiografico della prima raccolta. “Clown per micro-riso”, uscita ne “i quaderni de l’incantiere” nel 1990 (l’incantiere: rivista di poesia e critica diretta da Vergallo). Politica e linguaggio, ragioni umane e culturali sono i confini della sua formazione, la poesia come milizia e lavoro febbrile sulla polis e sulla lingua in una prospettiva utopica.