Walter Pedullà (Siderno 1930), allievo di Giacomo Debenedetti, critico «fiancheggiatore» del Gruppo 63, epperò mai organico a nessuna «scuola», ha prediletto sempre gli scrittori inconsapevolmente «rivoluzionari», o grandi sperimentatori, magari appartati. L’impressionante mole interpretativa di Pedullà si snoda da Svevo a Savinio, da Arbasino a Palazzeschi, da D’Arrigo alla Rosselli, da Alvaro a Delfini, da Malerba a Celati, da Ferretti a Zanzotto, da Campanile a Gadda, da Testori a Pagliarani. Quella di Pedullà è una instancabile fedeltà al Novecento, il secolo della letteratura italiana. A prima lettura quella di Pedullà sembrerebbe una critica «assolutamente» moderna, sempre alla ricerca del «nuovo», in realtà il critico calabrese ha sempre –e questo soprattutto da quando la sua ricerca è andata insistendo sul comico e sull’umoristico– ben dissimulato un nucleo ben nascosto di «dolore» («Il Controdolore di Palazzeschi manda a dire sin dal 1914 che tutto è risibile: anche la morte. (…) Il dolore è solo la superficie, sotto c’è il riso, scavate nel vostro intimo: in principio ci fu una risata, di Dio»); e questo, forse, è appena riemerso nel decennale lavoro svolto su
Horcynus Orca, capolavoro mitopoietico, romanzo eminentemente lirico, visionario, finanche realista, ma soprattutto romanzo cardine del Sud, di un Sud visto con l’occhio sinistro (quello dei sogni e degli incubi), o nel recente «romanzo critico» su Giacomo Debenedetti, laddove Pedullà ha raccontato le magie intuitive del critico piemontese senza nascondere le magie dei suoi vent’anni, dello Stretto all’alba (Debenedetti insegnava a Messina), di un apprendistato che ha avuto qualcosa di «esoterico» (come un fuoco che passa dalle mani del maestro a quelle dell’allievo). A prima lettura Pedullà ha deriso e mistificato i grandi monumenti della retorica del dopoguerra: la Resistenza, il realismo, il facile lirismo, l’emigrazione, la fine della civiltà contadina. Invece Pedullà ha fatto una manovra più commovente e segreta: ha deformato questi monumenti per farli durare nel tempo – e soprattutto, ha raccontato il «dolore» dal basso, ovvero dal punto di vista del comico e dell’umoristico, cioè dal punto vista dell’intelligenza. Non a caso, proprio scrivendo di Corrado Alvaro, Pedullà (al di là della sua sciamanica e bellissima lettura de
Il ritratto di Melusina) ha coniato la formula «nominare e suggerire», che più o meno significa che lo scrittore deve tenere nascosto – come fosse inguardabile – il proprio segreto, il proprio «dolore». Tutto questo accade anche nel palazzeschiano
E lasciatemi divertire!, dove l’autore de
La letteratura del benessere torna ancora su alcuni «suoi» autori (Zavattini, Palazzeschi, Gadda, Campanile, Arbasino, Calvino), senza però disdegnare una ironica e paradossale incursione nell’attualità (riportando principalmente i « fondi » pubblicati sulla sua rivista “Il Caffè Illustrato”). Qui Pedullà aggredisce l’Italia contemporanea con il paradosso e l’ironia, ma ancora una volta riesce a dissimulare (male) il suo «dolore» per quest’Italia piccolo-borghese e pateticamente sofferente.
15/09/2007 - Il Messaggero
L'omino di fumo si diverte un mondo, di Renato Minore
Datemi l’omino di fumo e vi spiegherò il mondo, la letteratura del Novecento e, magari, anche la finanza da accattoni che ci circonda, la televisione e i suoi riti di voracità da “reality”, il lavoro precario, i premi, la ’ndrangheta, i cadaveri eccellenti del massimalismo e dell’estremismo ideologico. Pazzeschi, il codice di Perelà, l’omino di fumo, quel «fumo che sempre gira tra di noi e ha la stessa materia del mito, disegno inafferrabile ma irremovibile». Palazzeschi, riferimento indispensabile per la letteratura del Novecento, predadaista, protofuturista, pioniere del surrealismo, alle origini del secolo che abbiamo alle spalle. Nel suo E lasciatemi divertire!, Walter Pedullà si serve di Palazzeschi (lo spolpa) come carcassa maieutica, o “codice di interpretazione” di vastissima apertura che gli permette di rivivere il corpo a corpo con altre scritture (anche le più eretiche non classificabili: Campanile, Zavattini, Gadda, Arbasino, d’Arrigo, Malerba) e di approdare sorprendentemente con piglio ironico e paradossale al presente, con la sua attualità politica e culturale.
Palazzeschi prende per mano Pedullà, con il suo Manifesto del controdolore gli ricorda che «l’umorismo permette di aver coscienza della condizione tragica e ridicola dell’uomo». Tra virate e accerchiamento del maestro Giacomo Debenedetti («andate avanti, si saprà solo più tardi dove eravate diretti»), Pedullà si lascia trascinare dal fumo sovversivo e un po’ screanzato dell’omino. E reagisce con l’azzanno assai forte, estroso e squillante, del critico che sta «dalla parte dei testi», mentre «libera il prigioniero, interpreta il non detto, da senso ai discorsi cifrati». Che è poi una splendida definizione della vitalità sprigionata dall’incontro del critico, dello storico del Novecento, dell’opinionista-polemista, del lettore privilegiato e onnivoro, con la letteratura più amata in cui ancora forte è la scommessa conoscitiva.
Così con «lazzi, frizzi, ghiribizzi», Pedullà conduce il lettore a una più stringente interrogazione da cui saltano i confini della tradizione letteraria e della stessa logica, seguendo le linee estrose e imprevedibili del fumo palazzeschiano. Chi non ha stile proprio non ha niente da dire, ha insegnato Debenedetti a Pedullà: la scrittura di Pedullà s’impenna e vibra («gioco con le parole per farmi regalare idee») inventandosi con lo stile il suo metodo d’approccio. Pedullà parla (diceva giustamente Alfredo Giuliani) per via di metafore e di ragionamenti. E non solo di metafore, ma anche di catene metonimiche e per via di trasferimenti semantici che spesso non sono neppure metonimie, vere e proprie acrobazie trasformative del genere comico. L’interrogazione critica è incessante, è come un motore che non perde un colpo, che si rigenera al suo interno, attraverso il continuo aggiramento e decentramento dell’ostacolo («la letteratura può parlare d’ogni cosa senza mai avere mai niente da dire») e con improvvisi fendenti, lanciati per catturare il massimo grazie alla felice concentrazione stilistica di uno sguardo critico che «deve provare a indovinare, a scommettere». Così l’invenzione scardina il rigore interpretativo, ma l’interpretazione è continuamente irrorata dal fantastico e dal grottesco della scrittura. Di una scrittura che, mescolando critica d’ogni genere «lunghezza, spessore, fisionomia, tecnica, linguaggio» in una satura lax dal passo continuamente e golosamente variato, sogna «articoli di giornale leggeri leggeri come l’uomo di fumo, che vanno giù pesante ma facendo bene».