Intervista a Gabriele Scalessa, di Lucius Etruscus
Come è nata l’idea di riproporre un’opera così “dimenticata” al pubblico italiano?
È nata quando scoprii, all’età di sedici anni (cioè nei lontani anni Novanta), il primo racconto di Carnacki in una piccola antologia dal titolo Gli indagatori dell’incubo, nella collana “Centopaginemillelire” della casa editrice Newton Compton. Il volumetto conteneva cinque racconti di altrettanti autori ed era curato dall’immancabile coppia Gianni Pilo-Sebastiano Fusco, fra i maggiori esperti del genere fantastico in Italia, spesso insieme quando si trattava di tradurre e curare volumi di letteratura del terrore per la casa editrice romana. Ricordo che divorai quel libretto in una serata, scoprendovi, oltre a William H. Hodgson, anche autori come Seabury Quinn e Manly Wade Wellmann, che all’epoca non conoscevo. Ebbene (non me ne vogliano i lettori di questa intervista, visto che la raccolta includeva anche H.P. Lovecraft e Robert E. Howard) fu proprio il racconto di Hodgson quello che mi piacque di più. E ammetto che pochi giorni dopo mi diedi anche a scriverne uno tutto mio sull’onda delle impressioni ricavate dalla lettura! Nell’antologia della Newton (il cui titolo rimandava ovviamente a Dylan Dog, “l’indagatore dell’incubo” di Tiziano Sclavi) il racconto di Hodgson si intitolava L’anello: così i curatori avevano deciso di rendere The Gateway of the Monster, che figura come secondo in ordine di apparizione nella raccolta Carnacki, the Ghost Finder. Appena ebbi scoperto che un’edizione italiana di questa era stata approntata alcuni anni prima, ne volli subito acquistare una copia. Ma – ahimè – scoprii anche che era fuori commercio da un bel po’, ed era per giunta molto rara pure nelle biblioteche! Ricordo che – ironia della sorte – la vidi menzionata in un articolo su un “Almanacco del mistero di Dylan Dog”, con tanto di riproduzione del disegno di copertina: il primo piano di un occhio sbarrato, con un maniero spettrale sullo sfondo e un’evanescente donna fantasma nel mezzo. Sicuramente già all’epoca mi venne voglia di cercare l’edizione in lingua originale e tradurla per conto mio. Ma almeno diciotto anni sarebbero trascorsi prima che mi imbarcassi realmente in un’impresa del genere. Diciotto anni gremiti di accadimenti, durante i quali, certo, ho pensato molto meno a Carnacki, leggendo solo sporadicamente cose di Hodgson. Poi però, un anno fa, l’amico Cristiano Spila, critico letterario, conosciuto ai tempi del dottorato in Italianistica alla Sapienza, mi parlò della collana “La cifra nel tappeto” della nota casa editrice Manni. Si tratta di una collana che ha riproposto sinora una decina di opere narrative, alcune dimenticate, altre meno lette di grandi autori del diciannovesimo e ventesimo secolo (come Le Encantadas di Melville o Bestie di Federigo Tozzi). Fu allora che il Carnacki di Hodgson mi tornò alla mente. Il mio progetto di traduzione dei racconti piacque ad Agnese Manni – alla quale nel frattempo ero stato introdotto da Spila – così come l’idea di scrivere un saggio introduttivo che li contestualizzasse nel panorama storico-culturale fin de siècle e primonovecentesco. Ed è così che il tutto ha avuto inizio.
Il linguaggio di questo autore ha creato difficoltà in fase di resa in italiano?
I passi del Manoscritto Sigsand – il misterioso autografo esoterico del quattordicesimo secolo, da cui Carnacki avrebbe tratto l’idea del pentacolo – sono scritti in un inglese che viene spacciato per antico, e richiedevano per questo qualche accorgimento in più in fase di traduzione. Come rendere quei brani? Traslati in una lingua moderna avrebbero certo tradito lo spirito dell’originale. Così ho pensato di trasformarli nel loro equivalente, cioè in un italiano che riecheggia quello antico. Eccone un esempio tratto dall’ultimo racconto, Il caso dell’uomo che grugniva, dove Carnacki affronta lo spirito di un gigantesco maiale che pare provenire ora dall’inferno ora da distanze siderali. In un luogo del racconto, il Sigsand chiosa che solo Dio può sconfiggere una tale mostruosità, e che la fede è l’unica arma che ne contrasti la potenza. Nella mia resa quel passo è così diventato: «Domineddio solo ha potentia sopra lo Verro. In lo sonno et magno in periculo, udendo la Voce del Verro, arrètrati; ché questo è una de le Siderali Monstruosità; né homo pote avvicinarglisi quandoch’ei ode la Voce di quello. [...] Terrifico est lo periculo per alma che lascia la fera approssimarglisi. Homo ke tiri a te lo periglio, rammèmorati de la Croce; ché di cotesto signo solo have lo Verro horrore!».
Anche Paolo Busnelli – che tradusse nel 1978 l’edizione di Carnacki che cercai invano a sedici anni – aveva avuto la mia stessa intuizione, ricorrendo a un italiano antico per le parti che il personaggio cita a memoria dal manoscritto.
Un discorso a parte bisognerebbe fare per i dialoghi farciti di slang che Hodgson attribuisce all’irlandese in La stanza che fischiava. In questo caso c’era necessità di una resa in italiano che desse conto della loro coloritura, diciamo così, locale. Per cui mi sono limitato a riprodurre certi tratti tipici del parlato, ad esempio sostituendo l’uso del congiuntivo con il più colloquiale modo indicativo, in questo modo rendendo anche conto della rozzezza con cui Hodgson presenta il personaggio. Eccone due rapide citazioni, dove l’irlandese parla della sua ragazza (uso il corsivo per indicare i solecismi): «[...] mi pare che con lei è come se ho sbattuto la testa contro un nido di vespe irlandesi!»; oppure: «Lei mi ha chiesto se non avevo paura della “stanza che fischia” e io ho risposto che dovevano darla gratis, la baracca, perché io non avevo sentito niente!».
Secondo te Carnacki è più “indagatore dell’occulto” o più Holmes?
Se consideriamo quanto l’approccio razionale sia importante per Carnacki nella risoluzione dei casi, allora possiamo certamente dire che Holmes gli sia maestro più di chiunque altro. È Carnacki stesso a dare per implicita una sua formazione da razionalista nel racconto L’entità invisibile, quando dice che «il novantanove per cento» dei presunti casi di infestazione sono in realtà sciocchezze (anche se poi, aggiunge, quel centesimo ha rilevanza tale da spingerlo a convocare i suoi amici davanti al camino per narrare le sue avventure!).
In realtà, per rispondere alla domanda, occorre fare una distinzione, perché eventuali somiglianze o differenze fra Carnacki e Holmes non riguardano solo i personaggi, ma anche, in senso lato, i due generi letterari di cui sono protagonisti. Se parliamo di personaggi, certo è che anche Carnacki, al pari di Sherlock Holmes, è figlio del Positivismo. E tutti sanno come molti positivisti condividessero principî razionalisti e cercassero nel contempo, soprattutto dagli anni Settanta dell’Ottocento, di rivolgere un approccio scientifico ai presunti fenomeni occulti. Non c’era contraddizione in questo per personaggi quali Alfred Russel Wallace (1823-1913) e William Crookes (1832-1919): provenendo da studi naturalistici, di fisica e di chimica, abbracciarono lo Spiritualism senza per ciò rinnegare le loro iniziali convinzioni. E non mi sembra ci sia neppure contraddizione per Carnacki, che dissemina i suoi racconti di considerazioni scientifiche – per quanto bizzarre – e di rinvii bibliografici quasi volesse dare una base positivista al suo personaggio. A conferma di quanto Carnacki sia figlio del proprio tempo, del resto, trovo assai significativo che verso la fine dell’ultimo racconto, quando risponde alle domande dei suoi amici, egli menzioni proprio l’elettricità come qualcosa di misterioso che ha costretto l’uomo a rivedere le proprie concezioni in fatto di materia. Non è una citazione peregrina: l’esempio dell’elettricità era stato infatti già addotto dagli spiritisti quale precedente per la giustificazione dei fenomeni occulti. Se è stato possibile dimostrarne l’esistenza a dispetto della sua invisibilità a occhio nudo – dicevano – cosa impedisce che un giorno si accerti anche l’esistenza degli spettri?
C’è però da fare una precisazione, come ha notato Fabio Camilletti, docente presso l’Università di Warwick, durante la presentazione del volume in Biblioteca Nazionale lo scorso 24 settembre. Ed è una differenza che riguarda le regole codificate del genere narrativo, più che la costruzione dei personaggi. Nel suo intervento Camilletti è partito dal noto saggio di Carlo Ginzburg, Spie: radici di un paradigma indiziario, che cita Freud, Holmes e lo storico dell’arte Giovanni Morelli come rappresentanti di una semeiotica che si affermò nel decennio 1870-’80 all’interno delle scienze umane. Essa impose gradualmente un paradigma per cui l’analisi di dettagli, tracce, spie, sintomi (in una parola, indizi) contava più dello studio di quei particolari macroscopici visibili anche al comune osservatore (cfr. C. Ginzburg, Miti emblemi spie: Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 2000, pp. 158-209). Le storie poliziesche e in particolare quelle di Conan Doyle con Holmes includono una gran quantità di indizi che il protagonista condivide con il lettore e che, opportunamente analizzati e ricomposti, conducono poi alla risoluzione dei casi. Le storie fantastiche, invece, non hanno bisogno di tutti quegli indizi perché c’è l’elemento soprannaturale che poi risolve tutto, sorta di deus ex machina che alla fine impone la sua, di logica, fatta di regole che il lettore è costretto ad accettare. Se dunque Carnacki somiglia per tanti versi a Holmes, è anche vero che il suo universo narrativo “tradisce” in alcuni momenti il paradigma indiziario che permea invece così in profondità il mondo del suo collega. Questo vale, ovviamente, solo per i racconti che includeremmo nel fantastico. Perché quando Carnacki si imbatte in casi che di soprannaturale non hanno nulla e basta analizzare una serie di dettagli per giungere alla risoluzione dell’enigma (si veda Il ritrovamento), ecco che allora è a tutti gli effetti “sherlockholmesiano”.
Qual è il tuo racconto preferito?
Direi proprio Il varco del mostro. Ma non so dire quanto tale preferenza derivi da una effettiva compiutezza artistica del racconto e quanto dal legame biografico che mi unisce ad esso dall’età di sedici anni. Certo è che dal punto di vista narrativo mi sembra uno dei più riusciti della raccolta: teso, concentrato, senza lungaggini. Anche l’impianto teorico e pseudoscientifico, di cui abbonda al contrario il finale dell’ultimo, è qui ridotto al minimo e menzionato quel tanto che basta perché il lettore capisca quello che Carnacki sta facendo, come si muove all’interno della Camera Grigia, come si difende da quella forza che fa sbattere la porta di notte e trascina le coperte nell’angolo della stanza. E poi è un racconto importante perché introduce il pentacolo elettrico, strumento indispensabile al protagonista, e il misterioso Rituale Saamaa, ad esso collegato.
Ricordo che, quando lo lessi la prima volta, mi colpì il fatto che Carnacki provasse così tanta paura – e non esitasse per giunta ad ammetterlo – al cospetto dell’ignoto. Se nel Caso dell’uomo che grugniva mostra tanto coraggio, nel Varco del mostro al contrario non fa altro che tremare! Oggi mi chiedo chi, convinto di avere la propria casa infestata da presenze soprannaturali, accetterebbe di affidarsi a un ghost hunter che non esita addirittura a darsela a gambe come fa il nostro nel successivo La casa fra i lauri. Ma poi penso che la specificità di Carnacki sia proprio questa: non avere timore di provare paura (se mi è consentito il gioco di parole). Che è poi quello che a sedici anni mi permise probabilmente di identificarmi in un personaggio così vicino all’Altrove (per riprendere un termine da lui utilizzato) eppure nello stesso tempo così umanamente atterrito da esso.
Nella lista dei racconti preferiti includerei poi il primo della raccolta, L’entità invisibile, che Antonio Debenedetti, recensendo l’edizione da me curata, ha definito il migliore della raccolta. Ma inserirei anche L’inquilino dell’ultima casa, con quel suo incipit così inquietante, e quel suo finale che resta sospeso fra l’étrange e il merveilleux, non essendo poi chiaro se gli accadimenti soprannaturali si siano realmente verificati e perché ognuno sia stato testimone di qualcosa di diverso.
Pensi di dedicarti alla traduzione e cura di opere simili in futuro?
Sì, mi piacerebbe molto farlo. All’indomani dell’attenzione che alcuni recensori hanno rivolto alla mia edizione di Carnacki – Antonio Debenedetti sul “Corriere della Sera”; Alessandro Beretta su “Rolling Stone Italia”; Loris Tassi su “Blow Up” – ho pensato di proseguire lungo la strada della traduzione di testi di letteratura fantastica. Ho in cantiere alcuni progetti, cui mi accingo a dare corpo. Ma preferisco lasciare l’attesa rimandandone la rivelazione ad altro momento. Credo che lo stesso Carnacki, che non ama raccontare le proprie storie fin quando non ritiene sia giunto il momento di farlo, mi comprenderebbe!