Zara Finzi, La porta della notte

12-03-2009

La poesia enciclopedica della Finzi. Tearto crudo nela porta della Notte, di Alberto Cappi

Non conosciamo personalmente Zara Finzi (una delle tante mantovane extra muros che fanno onore alla nostra città), non abbiamo avuto occasione di leggere fino ad oggi qualche suo testo poetico (e questo è senza dubbio un nostro limite), non sappiamo quali esperienze di vita abbia avuto e quale sia tuttora la sua condizione sul piano familiare, professionale, affettivo.
Se, da una parte, tutto ciò ci avvicina alla Poesia della Finzi con animo sgombro da precedenti approcci, dall’altra parte una più approfondita conoscenza dell’autrice ci offrirebbe qualche chiave di lettura in più, qualche più concreto appiglio a un’interpretazione dei versi più vicina al vero, qualche meno vaga supposizione oggetto di ispirazione. Ma tant’è! Abbiamo sotto gli occhi la più recente silloge poetica di Zara Finzi, La porta della notte, con un disegno, in copertina, del nostro Albano Seguri. Si tratta dello stesso editore che lo scorso anno ha pubblicato per la collana Pretesti i testi di Angelo Lamberti, Teatro instabile, con in copertina una scultura di Aurelio Nordera – mantovano d’adozione. Due raccolte che sanno di mantovanità, esaltate da originali e delicati progetti grafici di Vittorio Contaldo.
L’unica cosa, dunque, che sappiamo della Finzi è quanto riportato in quarta di copertina: nata a Mantova, laureata in Filosofia estetica sotto la guida di Luciano Anceschi a Bologna dove ora vive e insegna. Ha al suo attivo traduzioni dal latino medievale di opere che precedono il canto gregoriano, testi di poesia in riviste e libri. E già da questo abbiamo la percezione della vasta cultura e delle varie, numerose e approfondite letture dell’autrice che constateremo lungo le oltre settanta composizioni che costituiscono la sua più recente fatica. La prefazione alle poesie di Zara Finzi è del professor Mario Artioli del quale non possiamo non citare la considerazione finale sulla silloge che coglie appieno il significato e lo spirito della raccolta. Ma prima di citare quanto ha scritto il prefatore, vogliamo provare a trasmettere al lettore ciò che ci ha colpito della lettura dei testi suddivisi in tre sezioni.
La silloge si apre con una chiara connotazione della terra natale. La poesia ne traccia con amore le peculiarità. “Già nei tramonti di settembre / tenere quella foschia dice è autunno… / …Ma io l’abbraccio questa pianura di pace / come il cespuglio che voltate le spalle / all’angoscia dell’autostrada / si abbarbica al palo della luce”. Qua e là si colgono altri versi che richiamano il mantovano legati a vicende familiari: la “stazione azzurra” di Marmirolo sulla Mantova-Peschiera, Traslochiamo nel paese sull’Oglio, cenni a case e luoghi della città. Ma non sono questi richiami, che ovviamente ci toccano più da vicino rispetto a lettori di altre “latitudini”, a incardinare la poesia della Finzi. I suoi colloqui, i suoi interrogatori, le sue invocazioni (in una poesia che più che cantare, dice) nascono dall’acuta osservazione del mondo in cui viviamo, del suo rapporto con noi, dei tanti dualismi e contrasti del nostro vivere e vissuto quotidiano. Gli aspetti antitetici della vita, la luce e il buio, il silenzio e il rumore, il giorno e la notte, la porta chiusa o spalancata, “et similia”, sono altrettante metafore del nostro percorso esistenziale, la cifra in cui si sostanzia la poesia di Zara Finzi.
Nessuna delle poesie ha un titolo. Forse è lasciato al lettore, alla fine, di dargliene uno che può essere ricavato dal testo, da una bella immagine che esalta il significato di una meditazione della pluralità, di oggetti, di piante, di fiori, di termini attuali o tecnologici, di richiami a motivi musicali e citazioni in lingua originale in esergo. Così, anche il linguaggio poetico aggiunge un’altra incognita: la presumibile età dell’autrice. Anche se staccato dal contesto, citiamo qualche verso: “stare su questa nuova soglia / dove vita e morte vanno insieme”; “Stretta a mia madre nel suo grembiule, cade la mia paura”; “fatica sì e pianto / per chi inventa ogni giorno il suo domani”; “Vivere fra le tue quinte la mia vita / basta che regga alla sconfitta dell’autunno il cuore…”; “Anche le gru in viaggio assecondano l’aria / nel turno del comando / gli occhi fissi alla palude lontana / e non sanno la rossa ferita sulla testa”; “Mi chiedo se tu abbia abbastanza luce / per questa notte”; “Dimmi chi sono, cosa sarà di me / che in quella sera di novembre / guardo la finestra di fronte aperta / sulle pentole di rame”, ecc. ecc.
“È un libro dolente – scrive Artioli nella prefazione – aspro e pur tenero e trepido, al cui fondo resiste una esplicita, vittoriosa fiducia nella poesia, nel ruolo del poeta”. Non possiamo che essere d’accordo.