Trentasei piccole storie impossibili raccontate dagli abitanti di un condominio.
Due interni per piano, sei piani per palazzina, palazzina A B e C.
Fredde comparse, testimoni compromessi di una vita claustrofobica e straniata sono gli animali parlanti, i travestiti, gli esuli, i suicidi, i fantasmi, gli assassini, i mutilati che affollano un’infinita periferia e ne tessono con le loro storie la trama irregolare.
Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Esperto di letteratura di viaggio, si occupa dei rapporti culturali intercorsi tra l’Italia e l’Estremo Oriente. Vive e lavora a Pisa.
Condomino è il suo esordio nella narrativa.
Per ascoltare l'intervista di Felice Cimatti a Danilo Soscia a Fahrenheit del 20 agosto clicca su http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=259730
INCIPIT
interno 12
[l’astronauta]
io sono l’astronauta. qualche volta gioco nel cortile insieme agli altri bambini. più che altro li osservo mentre cerco di imparare. vorrei imitarli, ma è quasi impossibile per me correre o semplicemente gridare. la visiera dell’elmo deforma la vista, e la luce che attraversa questo materiale tra la plastica e il vetro ha sempre lo stesso colore. quando piove si appanna e devo aspettare che asciughi prima di ricominciare a vedere in modo più chiaro. a volte, possono trascorrere ore.
anche se mi piace molto, è raro che io scenda a giocare. è raro che ne abbia il tempo. mia madre non è molto convinta che io possa trovarmi bene con gli altri bambini che frequentano il cortile. loro non sono astronauti. ci sono certi giorni in cui non ho voglia di chiederle il permesso di scendere. una specie di stanchezza mi impedisce di rincorrere mia madre nelle sue inutili occupazioni per ottenere ciò che dovrebbe essermi dovuto senza troppe trattative.
mia madre si ostina a tenermi lontano dagli altri. nessun pentimento la scuote, neanche quando mi trova a guardare la strada dalla finestra della nostra cucina. il massimo che sa fare è tirare le tende, così che lo spettacolo del quartiere cessi per sempre di occupare il mio tempo. guardo la televisione in molte occasioni, soprattutto la mattina appena sveglio. nella mia tuta le voci arrivano diminuite, non riescono a superare il suono cupo del respiratore.
la sera a letto dico le mie preghiere. prego che il giorno dopo io riesca finalmente a uscire di casa. prego che mia madre non si opponga. prego che non piova e che non faccia troppo caldo. mia madre dice che non sono capace. che non sono capace di vivere. se la prende con la mia tuta. con le mie abitudini. io voglio dimostrarle il contrario. voglio diventare un precedente per la mia famiglia, per il mio quartiere, per tutto il mondo. vorrei essere ricordato come il primo astronauta cronico.
quelle poche volte che mia madre si lascia convincere, andiamo al piccolo parco dietro il nostro condominio dove ci sono i giochi e la vasca di sabbia. mi faccio fotografare mentre vado sull’altalena e sullo scivolo. cerco di accumulare più testimonianze possibili della mia discesa sul pianeta terra. sotto i miei piedi piombati sento l’erba generica del parco, e mi chiedo quanto sia importante che io viva. quando mi rivedo in quelle foto, capisco che il tempo a mia disposizione si sta consumando troppo lentamente.
a tavola sono costretto a togliere il casco. sembro un microcefalo. la testa mi spunta dalla tuta come il frutto poco cresciuto di un corpo molto più grande. mia madre scoppia a ridere. accade tutti i giorni. cambiano solo l’intensità e la frequenza della sua risata. cerco di mangiare il più in fretta possibile. di non far notare la difficoltà che provo nel portare le posate alla bocca e nel masticare. velocizzo i movimenti. spreco molto cibo, facendolo ricadere sul tavolo o a terra, dove il nostro cane fa giustizia della sua vita occupata ad aspettare l’ora dei pasti.
io sono l’astronauta. so che dietro la mia presenza c’è una pulsione insana alla complicazione. ho sempre amato i ragazzi del cortile. solo non sono mai riuscito a carpire il segreto della loro capacità. in certi pomeriggi d’estate ne elencavo i nomi, ne riassumevo le caratteristiche in qualche breve descrizione da tenere a mente. poi, nei lunghi periodi in cui ero costretto a casa, li dimenticavo. in qualche modo smarrivo il senso di tutto quell’impegno nei confronti degli altri, mentre fuori ogni cosa rimaneva assente come sulla superficie della luna.
li vedevo ballare nelle piccole feste organizzate nel sottoscala. seguivo le loro passeggiate verso i box auto, mentre cercavano un luogo sicuro per scambiarsi qualche effusione allarmata. la rabbia mi offuscava la vista. mi stancavo. il respiro occupava le mie orecchie per intero, fino a quando non mi rassegnavo a riprendere la via di casa, fino a quando non ritrovavo la mia piccola stanza, dove avrei potuto riflettere sul mio ruolo di astronauta, sul fatto che sapessi muovermi nel mondo con il passo complicato di chi esplora i confini dello spazio.
mia madre mi aspettava sulla porta. sembrava che qualcuno l’avesse avvertita del mio umore turbato dalle banali occorrenze della vita. allora, senza dire una parola, mi faceva rientrare. mia madre dice che non sono capace di vivere. peggio. non sono capace di morire. anche le lacrime appannano il vetro del casco. mi stendo sul letto blu notte e riguardo le mie fotografie. sono molto cambiato negli anni. eppure sembro sereno. direi quasi felice. non ho più eccessi d’ira. si può dire che non sono un violento. in verità, non lo sono mai stato. tranne una volta, quasi dieci anni fa.
in equilibrio sul davanzale della finestra tentai un allunaggio d’emergenza, mentre gli altri bambini divertiti mi incitavano a buttarmi. controllai l’attrezzatura di bordo. tutto in ordine. chiamai la base per chiedere conferma. ero in attesa del via per cominciare il conto alla rovescia. arrivò mia madre che senza emettere suono mi tirò indietro. fece fallire così la mia missione. mi disse che ero un frustrato. mi disse che non ero capace. io avevo trent’anni. mi tolsi i guanti argentati. l’afferrai bene per le spalle e la lanciai di sotto.