Fabio
Fabio
Questo è il racconto di un’odissea tra uffici d’igiene, laboratori di biologia, aule universitarie, per tentare di scoprire cos’è, o chi è, Fabio, strana creatura finita chissà come nella camera da letto del protagonista.
Un peregrinare che diventa ricerca di sé. Fino a scoprire che, ormai, Voltolini e la creatura sono stretti in una ragnatela.
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INCIPIT
Un giorno tornai a casa in tarda mattinata e trovai mia moglie e mia figlia al centro del lettone strette l’una all’altra.
– Guarda là, – mi disse mia moglie indicando un punto della parete vicino alla porta, a poche spanne dal pavimento. – È uscito da sotto il letto e si è fermato lì, non sapevamo come fare.
Un ragno nero e peloso stava immobile sul muro. A immaginarlo inscritto in una circonferenza come l’uomo di Leonardo, occupava l’area del coperchio di una scatola di pomodori pelati.
– È mostruoso! – dissero. – Che schifo!
E poi: – È uscito di corsa da sotto il letto, sembrava un topo!
Quando ancora abitavo da solo nella vecchia casa (che mia figlia continua a chiamare “la casa nuova” per via che è di costruzione più recente rispetto a quella in cui tuttora abitiamo) sul balcone terrazzato c’erano dei vasconi di cemento in luogo della ringhiera, adibiti a vasi, pieni di terra. Avevo piantato rose, iris, una forsizia, e altri fiori. Fra i rami di una rosa aveva tessuto la sua tela un ragno esteticamente assai bello, nero e giallo, di un giallo dorato, grasso come un ditale. La tela era magnifica, nelle sue simmetrie lucenti se colpite dal sole. Se ne stava o al centro della sua architettura oppure accanto a una delle attaccature della tela su di un ramo della rosa.
Catturavo mosche e gliele davo in pasto. Catturavo formiche e gliele davo in pasto. Raggiungeva agile come le dita di un pianista il punto della tela dove l’insetto si dibatteva, lo imbozzolava, recideva con colpi precisissimi alcuni fili intorno lasciandone solo uno da cui pendeva il bozzolo, come un salame messo a stagionare in una cantina fresca, appeso al soffitto.
Poi ritesseva la tela ordinatamente.
Un giorno scomparve e non lo rividi più.
Era meraviglioso.
Appartiene a un altro periodo ancora della mia vita.
Ora il ragno sulla parete di casa era una presenza alquanto diversa. Cupo nel suo colore, tanto quanto era smagliante l’altro, confuso nella forma allargata a causa dei peli sulle lunghe zampe e sul corpo, tanto quanto nitido era l’altro, emanava però la stessa energia: non è detto che nella lunga storia dell’inimicizia tra gli uomini e gli insetti non abbia trovato posto da qualche parte un tacito e orribile rispetto tra gli aracnidi, in questo caso nostri alleati, e noi. Se su quella parete fosse andato a piazzarsi anziché un ragnazzo un insetto altrettanto peloso, altrettanto corposo, di sicuro una fatale ciabattata sarebbe partita subito, senza indugio. Invece il ragno era lì, in stallo come il resto della mia famiglia, in simmetrica fotografica stasi. Ma vivo e incolume.
Andai rapido in cucina, presi un bicchiere bello grande e un foglio di carta, tornai in camera da letto, accampanai il ragno con il bicchiere e infilai piano piano il foglio di carta tra la parete e il bordo del bicchiere facendo attenzione a non ferire l’animale. Quando tutto il bordo del bicchiere stava sulla carta, portai l’intera prigione e il suo contenuto in giardino posandoli in piano su di un tavolo.
Il ragno aveva fatto qualche mossa, ma ora se ne stava nuovamente immobile. Il resto della mia famiglia invece si sgranchiva. Mia figlia poteva finalmente osservare da vicino quella forma vivente che tanto la incuriosiva. Nessuno di noi aveva mai visto un ragno così grosso in libertà, fuori da mostre o documentari.
Quello che suonava strano era che una simile creatura potesse essere viva nell’habitat di una metropoli.