Dal primo giorno, il Cisternone si è presentato nella mia mente come una bolla immensa, una mongolfiera tenebrosa, capovolta, sulla quale galleggia la Rocca. Attività fisiche, rumorose, mestieri praticati in superficie, niente del genere può avvenire in un ambiente privo di consistenza, fluttuante come una nuvola…
Al giovane Kalheb, immigrato del Nord Africa, la Rocca appare come un piccolo borgo sospeso sul vuoto di un viscere profondo, il Cisternone romano del I secolo a. C., che alimentava con la sua acqua l’antica comunità di Formiae. La stessa che oggi, rinnovata nel corso della storia, gli si manifesta in tanti incontri, legata a regole e tradizioni di una gens consolidata nel tempo.
Kalheb è accolto da Metellozza, anziana custode delle storie e dei segreti della Rocca. Secondo la credenza del posto, versione popolare del Purgatorio, nel Cisternone le voci sospese attendono di confessare la loro colpa ad un vivente per liberarsi di un peso che le costringe a sostare nell’oscurità del viscere.
Le anime raccontano a Kalheb le loro storie aiutandolo a ricostruire l’identità del Borgo, mentre Metellozza sogna di inserire lo straniero tra la sua gente in un percorso di difficile integrazione.
Le voci del Cisternone è un romanzo moderno, dove storie e ritratti incisi nella tradizione sono specchio del nostro tempo.
Incipit
Una donna senza età si era affacciata da un davanzale ornato di piante di vari colori. Prevaleva il rosso dei gerani, primo segno vitale della Rocca ancora immersa in un sonno calmo, senza rumori.
Spettinata dal vento, scarmigliata come una prefica, i gomiti appoggiati alla soglia della finestra corrosa dalle intemperie, così si presentava agli occhi di Kalheb la donna. Un’apparizione severa, una sorta di vecchia fata benigna.
Gli fece alcuni cenni agitando lentamente nell’aria le mani ossute. Lo invitava ad accostarsi, forse cercava di avvertirlo, presentati senza sospetto, qui nessuno se ne sta nascosto dietro un angolo, nell’attesa di un’occasione favorevole per manifestare le sue richieste.
Nella sua terra la maggior parte delle donne di razza antica era abituata alla confidenza. La distanza gli impediva di intercettare un pensiero non ancora espresso, poi lo sguardo, per quanto potesse coglierlo, gli sembrava socchiuso, quasi tagliato di traverso. Non comunicava una disponibilità certa, una voglia di tendere la mano ad un estraneo.
Le piccole comunità sono diffidenti per difesa, ne aveva fatto le spese durante il suo vagare randagio per il mondo. Perciò, cacciava dalla sua mente la speranza, si aspettava un atteggiamento ostile appena la donna si fosse accorta della sua identità di giovane sconosciuto, per di più straniero.
La carnagione della donna sembrava scurita dal sole e dagli anni, un colore vicino al rame invecchiato o al cuoio di una cintura abbandonata da anni. Valutò incoraggiante, persino favorevole, quella tinta curiosa, attraversata da grandi solchi magri e profondi, tipici dell’età avanzata. Non sarà la diversità della mia pelle ad aumentare la sua diffidenza, così aveva concluso rassicurato.
Era così facile interpretare il suo bisogno di un ricovero, una richiesta sia pure limitata ad una sola notte? Kalheb istintivamente gettò un’occhiata furtiva al suo abbigliamento sgualcito, poi passò rapidamente in rassegna il suo aspetto, barba incolta, capelli lunghi e arruffati, scarpe sofferenti da un cammino faticoso. Troppi segnali espliciti per conservare il segreto del suo desiderio, assicurarsi un giaciglio. In quel momento non aveva altro pensiero nella mente, il resto sarebbe venuto dopo un riposo conveniente. Avrebbe deciso alla prima luce del giorno se restare oppure riprendere il cammino verso un’altra destinazione.