Skyline
Skyline
Guarda il video di Carrera su Skyline girato alla Fiera del Libro di Torino nel maggio 2009:
http://www.youtube.com/watch?v=bw9t1Qu5a7U
INCIPIT
Era da giorni che gli uccelli si comportavano in modo inspiegabile. Invece di percorrere il cielo sopra l’isola in stormi fitti e fantasiosi, come erano soliti fare, parevano aver perso la guida e il senso della direzione. I loro ammassamenti a mezz’aria non prendevano più forma. Incapaci di darsi una geometria si sfilacciavano scomposti, frammentandosi in voli capricciosi. Senza un capostormo da seguire, abbandonati a se stessi, vorticavano freneticamente da una cima all’altra dei grattacieli o si gettavano in picchiate senza senso tra una facciata e l’altra, sbattendo le ali all’ultimo momento per non schiantarsi contro le vetrate e i pilastri di ferro. Sembravano non tornare mai ai loro nidi. Chi come me viveva ai piani intermedi era abituato a sentirli frullare, cinguettare e garrire ogni mattina presto, e di nuovo prima del tramonto quando si fermavano a conversare a piena gola prima di ritirarsi per la notte. Nell’ultima settimana, invece, avevano smarrito ogni istinto della veglia e del sonno. Dalle finestre del mio ufficio, appena sopra la linea mediana dello skyline, li vedevo sbandare come ubriachi fra le antenne e le terrazze dei palazzi vicini. E in piena notte, dalla camera dove dormivo, li sentivo scatenarsi in indescrivibili conferenze quasi umane, come quando nessuno ha torto ma tutti vogliono avere ragione.
Ero arrivato in anticipo alla riunione indetta dal direttore di sezione. Dalla vetrata della sala dove mi trovavo stavo osservando da qualche minuto gli sforzi di uno stormo che tentava inutilmente di raggrupparsi, agitando disordinatamente le piume in ogni direzione. Non facevo ipotesi sulle ragioni del loro comportamento. La mia curiosità, fino a quel punto, era rimasta oziosa. Ero sempre stato un uomo senza premonizioni. Se nella follia che aveva afferrato gli uccelli si nascondeva un segnale d’allarme non sarei stato io a decifrarlo.
Intanto, il giorno stava per finire. Uno spicchio della luce che calava sulla baia a sud dell’isola entrava come un cuneo nella stanza. Sui vetri dei grattacieli che facevano angolo al mio, sopra le grandi placche di metallo delle torri più alte, il sole arrossato accendeva riflessi che mutavano in un istante dal platino all’ottone, moltiplicando la luminosità delle architetture come un caleidoscopio che aggiungesse mille luci alla fiamma di una candela. La luce secondaria, metallica, guizzava imprevedibile, prodiga di ombreggiature inaspettate quanto di prodigiosi rischiaramenti. I colori frusciavano chiassosi, in scure tinte di rosso e oro, per lasciarsi poi coprire gradualmente, più quieti, dal viola e dal grigio che subentravano con l’incupire dell’ora. Era uno dei miei momenti preferiti. Spesso lo attendevo come l’unico dono della giornata, fermandomi oltre l’orario di lavoro per godermelo in pace. Anche in quell’occasione, mentre aspettavo l’arrivo dei colleghi, avrei voluto calmare la mente contemplando le cime dei palazzi che passando dal tramonto al crepuscolo si lasciavano lentamente catturare dal buio. Ma non mi era possibile. Gli incomprensibili uccelli rigavano lo spazio come chiodi passati di striscio su una carrozzeria, e anch’io, quello che ero ed ero stato, la mia intera vita, da settimane veniva artigliato nello stesso modo, da unghie affilate che facevano a pezzi ogni difesa che volessi alzare. Avrei potuto accampare molte scuse per non partecipare a quella riunione, ma non le avevo usate. Qualunque ritardo, qualsiasi contrattempo erano cento volte meglio del momento vicino, a meno di un’ora nel futuro, quando sarei arrivato davanti alla porta del mio appartamento e avrei dovuto aprirla, per trovare Ada, o per non trovarla.