Milano non è la verità, di Matteo Massi
Oltre trecento pagine filate. Che filano via anche, alla lettura, piuttosto bene. A scriverle è l’eminenza grigia di molti scrittori di casa Feltrinelli, ove Alberto Rollo ha fatto il direttore letterario fino a poco tempo fa. Il suo primo romanzo si intitola “Educazione milanese”. Titolo di per sé programmatico. Perché quella di Rollo è un’educazione milanese: lui a Milano è nato, ha vissuto e continua a viverci. Dopo la lettura – e non c’entra nulla “X Factor” – ecco che s’insinua un vecchio pezzo degli Afterhours. Anche Manuel Agnelli nelle sue canzoni ha raccontato la trasformazione della sua città, prendendo spesso come spunto gli architetti (“Gli architetti sono qua, hanno in mano la città” in “1.9.9.6”). In questo romanzo che trae una forte ispirazione da almeno due foto di Gabriele Basilico si parla anche di archistar e di quello che Milano è diventata o aspirerebbe a diventare. Il pezzo degli Afterhours che mi entra in testa però, subito dopo la lettura del libro di Rollo, s’intitola “L’inutilità della puntualità”. E c’è una parte che è ancora più significativa, Agnelli canta: “Quando la novità che rappresentate sarà finita, vi appellerete all’inutilità della puntualità”. E via il ritornello: “Milano non è la verità”. Che Milano sia o non sia la verità di questo Paese è ovviamente tutto da dimostrare. Di certo questo libro, costruito non dall’oggi al domani, non arriva puntuale nelle librerie. Sarebbe potuto arrivare molto prima e molti avevano consigliato Rollo di farlo. Però Rollo non arriva nemmeno fuori tempo massimo con questo romanzo che è un romanzo di formazione, il suo romanzo di formazione, con una lingua bella e a tratti appassionante, anche per determinate scelte linguistiche come quando scrive “lo schiaffo insaponato del passare di mano di potenti società finanziarie”. Un’eleganza assoluta nel descrivere il lato più oscuro degli affari di Milano. Una città che probabilmente, soprattutto ora, è ancora in cerca di se stessa. Di una propria identità ma che sembra aver perso lo smalto di un tempo: quando era capitale morale e anche culturale. Quando era appunto la novità. Che sembra ora essere finita.
Ma è forse la prima parte del libro quella che colpisce di più. Rollo parla di un’educazione proletaria, partendo da come la città dalla fine degli anni Cinquanta si è trasformata. E di come anche la sua adolescenza sia intrisa di quell’educazione proletaria, anche per merito del padre. Nessuna nostalgia ma un modo per raccontare come i quartieri di Milano, la Bovisa ad esempio, siano cambiati, ma anche come siano riusciti in passato a dare grandi energie, non solo fisiche, alla stessa città. E’ un ritratto appassionato di Milano perché calato su se stesso e sulla propria crescita. Certamente, non mancano le tensioni, i cortei e le speranze che dal Sessantotto in poi si sarebbero trasformati in grande illusione. Manca quasi totalmente invece, la Milano da bere, e non è un difetto anzi. Fin troppo raccontata ed enfatizzata nei suoi effetti. Ma il salto temporale che riporta al presente non è assolutamente azzardato. Alla fine, come lo stesso Rollo scrive, questa città l’ha voluto. Un figlio desiderato di una famiglia che era arrivata dal sud (Lecce per l’esattezza). Ma possono sentirsi così i milanesi di oggi? E la Milano post Expo che ha completato la sua mutazione genetica da capitale morale un tempo, pre Tangentopoli, a capitale della moda, dell’effimero (nell’ormai abusata definizione di società liquida), anche in quegli stessi quartieri dove un tempo si produssero saperi, avanguardie e occupazione (e spesso diventati oggetto di una sfrenata archeologia industriale o solamente culturale), come accoglierebbe ora quei suoi figli di seconda generazione?