Una Spagna napoletana di magliari, camorristi e vecchio-giovani megere, di Francesco Durante
Alessio Arena ha 25 anni. Nasce musicista (figlio d’arte) al Rione Sanità; e a Napoli vive tuttora una parte del suo tempo, dividendo il resto tra Madrid e Barcellona. È laureato in Americanistica e specializzato in Letterature ispanoamericane con una tesi sullo scrittore cubano Reinaldo Arenas (potenza attrattiva dei nomi). L’altra sua grande passione è la scrittura. Ha pubblicato racconti su “Linus”, sulla rivista spagnola “Calle 20”, su “Nuovi Argomenti”, oltre che in varie riviste digitali (tra cui “Nazione indiana”). È inoltre presente in due antologie : Quello che c’è tra di noi, a cura di Sergio Rotino, e Napoli per le strade, a cura di Massimiliano Palese; e ha partecipato alle messa in musica del romanzo di L.R. Carrino Acqua storta.
Non piove dunque dal cielo questo suo L’infanzia delle cose, sorprendente esordio nel romanzo, del quale voglio dire subito che mi pare, insieme coi libri di Peppe Fiore, la più notevole cosa under 30 della presente, ricchissima stagione napoletana.
Zigzagando su internet ho trovato un’intervista in cui Arena dichiara: «Ho vissuto nella Sanità tutto il mio tempo, sebbene alternassi spesso il Supportico della Vita a un paesino del Nord della Spagna, dove era la casa di mia madre. Per seguire lei ho poi conosciuto un altro paesino sulla costa, un altro mare, vicino Barcellona, dove, nel tempo, il turismo e l’immigrazione da Napoli hanno portato alla formazione di una improbabile massoneria, una peculiare comunità che mi ha subito affascinato, le cui caratteristiche e vicissitudini racconto nel mio primo romanzo».
L’informazione è preziosa per orientarsi in un libro che spiazza subito proprio in virtù della singolare ambientazione. Siamo infatti a Lavapiés, l’equivalente madrileño della berlinese Kreuzberg, un quartiere multietnico nella città vecchia, pieno di locali e negozi della più varia origine, dai gitani agli indiani, e di giovani creativi. Qui, incrociando il dato autobiografico con le escursioni fantastiche, Arena situa quel che resta della famiglia del ragazzo Antonio Bacioterracino, scippata dalla Sanità in Spagna dopo che, negli anni Ottanta, il padre Patrizio, cantante, è morto per un’overdose di eroina («L’hanno rimasto dentro a una macchina, ieri notte, a Barra»).
Quel che ne viene fuori è un trattamento davvero singolare di materiali peraltro consueti nella nuova narrativa napoletana, così attenta al milieu sottoproletario-criminale. Tanto singolare, da finire per allontanarsi dall’esito invariabilmente (o quasi) noir, e da proporsi come un racconto per il quale, in quarta di copertina, viene evocata con qualche ragione l’inedita categoria del «realismo magico-napo-latino». Quello che Alessio Arena ci racconta è un mondo di camorristi in fuga, tutti in qualche modo segnati dalle ustioni di un rogo dal quale sono usciti a malapena; di donne vecchie e giovani unite da nevrosi che si esprimono o con reiterati attacchi di tosse, a scatarrare smozzicate litanie, o con incontenibili geremiadi originate da un abissale terrore nei confronti degli scarrafoni che assediano ogni ambiente. Un mondo di magliari che hanno impiantato la loro ditta Stile Italia Design, «che non si capisce che lingua è, ma si capisce che è una cosa arrangiata». E un mondo che ha libertà di ibridarsi nei labirinti della mente con quello d’origine e di tornare alla Sanità, magari a zia Consiglia che vedeva in fantasma di June Christy (la meravigliosa cantante anni ’50 di Something Cool) vagare per il Cavone…
Il tutto sostenuto da una lingua ricca, giustamente ibrida, sostenuta da uno stile sicuro e attraente; in un libro pieno di cose come un uovo, e del quale, prima o poi, sarà il caso di tornare a parlare.