L'intervista, di Matteo B. Bianchi
Un esordio atipico e originale, una vicenda che mischia la canzone neomelodica napoletana alla malavita spagnola. Un ardito esperimento narrativo firmato da un narratore venticinquenne.
Il tuo romanzo è pieno di stranezze, per cominciare è una storia totalmente napoletana tuttavia si svolge a Madrid…
«Focalizzo gran parte della narrazione attorno a un “Golfo di Napoli” insediatosi nel bel mezzo del quartiere gitano di Lavapiés perché avevo voglia di raccontare la mia città da un’altra prospettiva. Una Napoli che si prodiga a ricreare se stessa ovunque metta radici, capovolgendo il suo storico ruolo di città assediata».
Accadono cose strabilianti, come un cane che si mette a parlare. Da dove viene questa vena surreale?
«Il realismo non mi interessa. Del resto l’essere napoletano, di un quartiere popolare del centro, non mi lascia molte alternative: un ragazzino della Sanità (come il protagonista del romanzo) vive in un ambiente di contraddizioni ai limiti del reale, dove tutto è estremo, vicino alla fine, confuso».
Il lettore scopre che i protagonisti sono dei morti viventi…
«Si tratta di morti senza sepoltura, ossessionati dal proprio corpo, dal suo irrevocabile destino di putrefazione. Nel momento in cui la famiglia Bacioterracino è costretta ad abbandonare Napoli per sfuggire a una vendetta annunciata, comincia a morire in mezzo a gente sconosciuta che nemmeno se ne accorge. Questi personaggi sono un omaggio al mio libro preferito, Pedro Páramo di Juan Ruffo».
Puoi spiegarci questo titolo?
«È un’espressione tipica delle mie parti. Se una persona “ti dà l’infanzia di qualcosa” vuol dire che ti ricorda un particolare che non esiste più. In questo romanzo ho cercato di dare l’infanzia di alcune cose che non mi sono mai spiegato».