Viaggio nel '900. Incontri con uomini straordinari, di Alessandra Pizzi
Personaggi degni delle migliori antologie, ognuno raccontato con minuziosa aneddotica, appannaggio di chi questi uomini li ha incontrati, nei salotti romani e nei mitici caffè dove per anni a Roma usavano ritrovarsi gli artisti e gli intellettuali, condividendo con loro emozioni, impressioni, e speranze. Sono queste figure, raccontate con vivacità e partecipazione, che animano Un piccolo grande Novecento, il libro di Antonio Debenedetti, pubblicato dall’editore Manni. Un libro-intervista scritto dall’autore (giornalista e scrittore, figlio del grande critico Giacomo Debenedetti) con il giovane Paolo Di Paolo.
Fellini, Flaiano, Carlo Levi, Dino Risi, Palazzeschi, Montanelli, Soldati, Moravia, Elsa Morante: l’Olimpo della letteratura italiana del XX secolo. Debenedetti, il titolo del suo libro parla di Piccolo grande Novecento. Non è stato poi così piccolo…
«No, non lo è stato affatto. Piccola mi pare piuttosto la parte di quel mondo e di quella cultura che io ho conosciuto. Piccolo appare il punto di vista dell’osservatore, in questo caso il mio, rispetto a quella straordinaria fioritura artistica e culturale che è stata dell’intero ’900, e in particolare degli anni Trenta. Un periodo straordinario, in cui sono attivi D’Annunzio, Pirandello, Svevo, Ungaretti, Saba, Montale. Sono gli anni di Solaria, di Croce e di quella mente straordinaria che fu Gentile. Per non parlare dell’architettura o della critica: ricordo Persico, Venturi, Longo, Argan. L’errore che spesso commettiamo è quello di considerare l’Italia di quel periodo come una provincia culturale, invece fu un epicentro: un Paese giovane che attraverso la cultura letteraria conquistò in pochissimo tempo la sua identità».
Nei racconti del suo libro, ricorre il nome di Alberto Moravia.
«Eravamo amici e negli ultimi anni della sua vita siamo stati molto vicini. Un uomo straordinario che ha esercitato un fascino irresistibile su di me. qualcuno, di recente, ha evidenziato un mio rapporto di narratore con Moravia. Questo non so se sia vero sino in fondo, perché nella mia formazione giovanile ha contato e lo si sente palpabilmente, Gadda. Ma Moravia rappresenta per me un maestro sul piano della crescita personale. Lo chiamavo ogni mattina e ogni giorno quella telefonata mi apriva nuovi orizzonti».
Nel suo libro afferma che forse, se non avesse incontrato Ungaretti, si sarebbe salvato dal mestiere della letteratura.
«Ungaretti è stato per me una folgorazione. L’ho scoperto verso i sedici anni. Portavo a scuola i libri delle sue poesie, che leggevo di nascosto sotto il banco. Poi un giorno gli ho portato delle mie poesie e lui, dopo averle lette, mi disse: sono “strane”. E quel giudizio fu per me straordinario, perché non erano né “belle” né “brutte”, ma “strane”. Era come se lui ci fosse in quelle poesie, come se vi partecipasse. Le presentò poi al Premio Viareggio. Ungaretti mi ha illuminato».
Lei esprime un giudizio inconsueto e forse scomodo su Pasolini, tocca un problema delicato quello della critica e del suo potere esaltante o dissacrante nei riguardi di un artista…
«Riguardo a Pasolini, sono state influenti le considerazioni di un amico comune: Bertolucci. Pasolini ha scritto molto, ha prodotto molto e molto è stato pubblicato e come spesso accade in mezzo a troppa produzione diventa facile confondere ciò che senza dubbio meritava la pena di essere pubblicato con quanto invece andava scremato. In lui il personaggio travalica l’artista e come spesso accade l’artista è più piccolo dell’uomo. Molti ne parlano senza averlo letto. Bisogna essere chiari: ha scritto, per esempio, pagine di critica insuperabile, altre criticabili. Così come ci sono delle poesie di Pasolini di straordinaria bellezza, avallate anche da Contini, o alcuni film che vale la pena di vedere. Io credo che il problema di Pasolini, sia in un eccesso di produzione: in una vita piuttosto breve come la sua, aver realizzato eccellenti pagine di critica e due bei film poteva bastare, il resto andava obbiettivamente valutato, ma non è colpa sua quanto del giudizio dei posteri».
Lei ha conosciuto Carmelo Bene?
«L’ho visto una sola volta, quella che basta a restare folgorati e soggiogati dal magnetismo di un genio. Un personaggio unico, coinvolgente, capace di essere con o contro se stesso. Lo intervistai, su indicazione di Angelo Guglielmi, per una trasmissione per Raitre. Avrebbe dovuto parlarmi di Joyce, era stato lui a deciderlo, ma al momento dell’intervista non voleva saperne, sicché un operatore, che lo conosceva bene gli versò un mezzo bicchiere di coca cola corretta, credo con del gin o della wodka, e Bene si “sbloccò” e fece un monologo intrascrivibile. Carmelo Bene è un personaggio magico che ha bisogno di Carmelo Bene. Trasformava il suo maledettismo in una recita di una forza strepitosa che solo lui aveva. L’ho incontrato solo una volta, ma quell’incontro non l’ho mai dimenticato».
Nel suo libro scrive “la nostra è una generazione di orfani incapaci di essere padri”…
«Sì: Io ho scritto una dozzina di libri, ma né io né i miei compagni abbiamo aperto degli orizzonti. Nessuno di noi ha scritto Gli indifferenti o Ossi di seppia, opere basilari del Novecento. Abbiamo difeso con molto decoro la tradizione letteraria italiana. La mia è una generazione di consapevoli inconsapevoli epigoni di una grande tradizione di un grande Novecento, ma che non ha aperto né nella critica, né nella poesia, né nella narrazione nuovi orizzonti».
A volte si è detto preoccupato del cognome che porta: un padre come il suo lascia un’eredità pesante…
«Non solo. C’è un’importanza che io do alla vita di ogni uomo. Ogni uomo ha alle sue spalle un enorme capitale e lo deve saper spendere, e se ci si interroga a volte su come lo si è speso spesso si rimane turbati, si ha l’impressione di aver tradito se stessi».