Il salento dì'inverno di Errico, di Lorenzo Marvulli
Il Salento che Antonio Errico descrive in Viaggio a Finibusterrae è quello delle piazze sole, deserte, fredde e «abbandonate da ogni passo d’uomini» dell’inizio dell’inverno. È un Salento che appartiene a chi ci abita, a chi conosce. Lontano dalle frenesie turistiche, dalle luminarie delle feste, i paesi di Finibusterrae – che sono poi ««un paese solo» – tornano ad essere ciò che sono sempre stati: un luogo dell’anima, avamposto della fine della terra e dell’inizio del mare.
Nella relatività del tempo Otranto, Gallipoli, Santa Cesarea, Castro sono «i luoghi del silenzio, della luce, della malinconia». Il Viaggio a Finibusterrae di Errico è un’immersione in queste atmosfere. Si è presi per mano e accompagnati in una spirale di riflessioni alla ricerca del senso ancestrale di questo Sud del Sud.
La collaudata metascrittura di Errico riesce nell’intento di trasportare il lettore nell’estremo tacco d’Italia e oltre, in quel luogo tanto reale quanto immaginario che è «rifugio e miraggio». Così questa sua ultima pubblicazione, per i tipi di Manni, è davvero un bel viaggio. Tra passioni e confini, come da sottotitolo.
Sfogliando le pagine ci si trova seduti su una panchina, in una delle «piazze della storia» dove solo un giorno, d’estate, «la banda ha suonato il bolero». Tra una pagina e l’altra, tocca guardarsi intorno. Il senso della citazione di Thomas Eliot che apre il testo – «se veniste da queste parti / vi toccherebbe spogliarvi del senso e della ragione» – si svela se solo si immaginano quei versi come riferiti al Salento. Errico reinterpreta quasi ossessivamente una sensazione di incredulità, di contraddizione permanente eppure fitta di significati.
Nessuna definizione dunque, solo profonde – poetiche in fondo – approssimazioni. Che citano le scritture e le sensibilità di Girolamo Comi, Maria Corti, Vittorio Pagano, Vittorio Fiore, Salvatore Toma, e soprattutto Antonio Verri, in un bell’omaggio alla tradizione letteraria salentina. Nostalgie di Finibusterrae.
Chiusa in se stessa, l’essenza del Salento in questo libro si rivela. Solo Lecce «è capace di colmare di bellezza ogni senso di vuoto e forse – talvolta – anche l’essenza di senso». Otranto invece, comunque, bisogna partire. «Dal mese di agosto dell’anno del Signore 1480». Da lì avanti nella storia fino ai racconti di quell’uomo, seduto nella piazza alla fine delle festa, che vorrebbe ancora parlare, parlare, parlare.