Antonio Perrone, Vista d’interni

17-02-2008
L’incontro con Antonio Perrone, di Valeria Blanco 

Non la storia di un eroe, ma nemmeno quella del male assoluto. Una tragedia: di un uomo, di un amore, di una terra. Raccontando una storia senza giudicare, la Fluid video Crew – gli stessi registi della docu-fiction “Italian Sud-Est” – ha realizzato “Fine pena mai”, lungometraggio girato nell’entroterra salentino, nelle sale dal 29 febbraio. Il film è il ritratto di un uomo – Antonio Perrone, boss della sacra corona unita condannato a 49 anni di carcere – e al tempo stesso di una triste stagione della nostra storia recente. Ispirato al romanzo autobiografico Vista d’interni (Manni), il film è stato presentato venerdì alla Feltrinelli di Bari e ieri alle manifatture Knos di Lecce. Presenti i registi – il leccese Davide Barletti e il romano Lorenzo Conte – lo sceneggiatore Marco Saura, il protagonista Claudio Santamaria e l’editore Piero Manni.

A Manni il compito di raccontare l’incontro con Perrone. A Marco Saura, quello di spiegare il passaggio dal romanzo a “un film che non ne è la fedele trasposizione”. Tutto nasce da un incontro casuale in carcere, dove Piero Manni insegna. «Un detenuto, che poi ho saputo essere Perrone - racconta Manni – mi ha chiesto di leggere il libro che aveva scritto». Un colloquio clandestino: Perrone – detenuto in regime di 41 bis, cioè un isolamento totale dal 1989 – non poteva parlare con nessuno. «Ma gli agenti – prosegue l’editore – ci concessero un breve scambio di battute. Ottenuto il permesso dalla Magistratura, Perrone mi consegnò il libro che lessi personalmente».
Pagine dure, graffianti che Manni decise subito di pubblicare. «Dalla scrittura traspare un tasso di forte letterarietà, grande capacità di astrarre, di creare un racconto che vale per sé ma anche per gli altri. Viene fuori un’immagine della situazione carceraria in tutta la sua crudezza: le passeggiate nell’ora d’aria, il rumore delle posate sulle sbarre, le tacche sui muri per contare i giorni, i mesi, gli anni che restano da scontare».
Fin qui la storia di “Vista d’interni”, recentemente pubblicato in una nuova edizione che include una posfazione di Barletti e Conte.
Ma il passaggio dal romanzo al film non è lineare. A fare da filtro interpretazioni e personalità di registi e sceneggiatori. Risultato: un Antonio Perrone che sembra quasi un altro rispetto al libro. «Le domande che ci hanno tormentato per i quattro anni di lavorazione – dice lo sceneggiatore, Marco Saura – sono state: “chi è Antonio Perrone e perché è diventato un boss della Scu?”. Abbiamo letto il libro, parlato con cronisti e magistrati, con la sua famiglia, ma siamo riusciti a rispondere solo alla prima. Perrone è il figlio di una famiglia benestante di Trepuzzi, ragazzo intelligente passato dal consumo di droga all’importazione di eroina, fino ai vertici della mafia salentina e al carcere».
Un personaggio anomalo, a capo di una mafia anch’essa anomala rispetto a quelle storiche, in un periodo – gli anni 80 in un lembo di Puglia – poco conosciuto nel resto d’Italia.
«Perrone – continua Saura – non si è mai pentito. Il libro gli è servito a liberarsi, ma soprattutto a sopravvivere all’isolamento totale che spesso porta alla malattia mentale. Basti pensare che il 41 bis prevede un solo incontro la mese con i familiari, attraverso un vetro. Daniela Perrone era incinta quando il marito fu arrestato: Antonio non ha mai nemmeno stretto la mano la figlio che ora ha 18 anni». Ma perché sia diventato un boss, il film non lo dice: gli autori e forse Perrone stesso non sono riusciti a rispondere a questa domanda. Lo spettatore può cercare risposte da sé, può condannare o assolvere, giudicare di fronte a un film che, invece, ha volontariamente operato un sospensione di giudizio.