Ma veniamo al testo. Don Lucio, che ha visto ardere tra le fiamme i corpi di sei bambini innocenti, è un sacerdote in procinto di ripudiare la fede cattolica e Mimì Festa è un bandito impenitente, ma convinto sostenitore dei disegni appartenenti alla Divina Provvidenza, è pronto a fargliela ritrovare. Il testo prende forma così: annullando ogni rigida dicotomia. Ironico, sferzante, impeccabile nello stile, il testo tramuta lo stereotipo in letteratura. Quando, sulla scena, si stagliano nitidi i personaggi che reggono come pilastri la tipicità del Meridione, dalla perpetua curiosa al marito geloso, i loro ruoli non sono né scontati né fatui. Nessuna comparsa, perché ognuno scava un solco nell’anima di Don Lucio e di Mimì, così che il lettore si trova dinanzi alle tre dimensioni della persona – coscienza, inconscio, azione – attraversate da un sottile scambio di luci e ombre. La donna, Odette, appare attesa e desiderata, a metà della narrazione. La sua presenza, per nulla vicina alle donne angelicate dello stilnovismo, sortisce l’effetto di una strana catarsi: non ci sono pentimenti o proposte di cambiamento da parte di Mimì. Nessuna folgorazione sulla via di Damasco, ma lo scorrere burlesco del tempo e l’incalzare degli eventi si trascinano dietro decisioni tanto perentorie quanto irrevocabili e le personalità sono così vicine che basta calcare un Panama sulla testa per scambiarsi i destini. Il cattivo soggetto doveva diventare un film: ma si può realizzare un film in cui tutti sono protagonisti? Solo la vita può giocare di questi scherzi. E la letteratura: Cavalluzzi, Rubini e Starnone smentiscono anche Sartre e i suoi epigoni immersi nella querelle sull’utilità del narrar per iscritto. Narrare rimane una necessità per imitare la vita? Piuttosto per svelarne contraddizioni o risvolti che si tacciono di fronte alle menti di chi ha dimenticato il piacere di leggere.