Il cattivo soggetto
Il cattivo soggetto
INCIPIT
Ma già quando si leva un coro piuttosto stonato e comincia a venir su per la collina una processione, le cose cominciano a diventare come in uno stagno quando ci buttate un sasso.
I fedeli stanno portando sulle spalle un piccolo altarino addobbato di fiori con al centro la statua di Maria Vergine. È gente del posto, gente perbene: contadini e artigiani, il sindaco, il dottore, persino il tenente dei carabinieri in grande uniforme e qualche lavoratore straniero che ormai fa parte della comunità. Alcuni, i più partecipi, i più ispirati, camminano scalzi. Molte donne coprono il capo con il velo, ben coniugate e mal coniugate, nubili e prossime al matrimonio. Niente di che, insomma. Ma il sacerdote che guida la processione, quello sì che ha qualcosa che non va.
È un uomo sotto i quaranta, vestito con l’abito talare da cerimonia, la barba lunga e lo sguardo di chi sta annegando. Se uno gli spaccasse la testa in due e ci guardasse dentro, si accorgerebbe che, proprio mentre tesse le lodi del suo Dio, ci sta litigando.
Il peggio comunque è altrove. Per rendersene conto basta spostare lo sguardo sulla macchina che si inerpica ad alta velocità lungo i tornanti della collina tutta a grano.
Alla guida c’è un tipo sulla cinquantina, un vestito primaverile color crema, il volto segnato da veleni vari: sigarette, alcol, donne e chissà cos’altro. È vestito con una certa cura ma un po’ cafone. Porta in testa un panama e si capisce che a quel cappello ci tiene, forse crede di fare una gran bella figura.
Che tipo è?
Mah.
L’espressione per adesso è indecifrabile. A una certa dissolutezza malvagia degli occhi associa, incongruamente, una sincera accattivante fragilità da agnello sacrificale. Di sicuro non se la passa molto bene, in questo momento: è spaventato, borbotta a ogni curva pericolosa non bestemmie ma una specie di rissoso e tuttavia supplice elenco di santi; una litania a fior di labbro che suona tipo: ma tu guarda – San Michele Arcangelo – come cazzo doveva andare a finire; ma tu pensa – San Giovanni Battista – con che stronzi io me la devo vedere; Padreterno, Padreterno, che ho fatto di male.
Però non sembra disperato. Pare uno di quelli che una soluzione la trovano sempre, anche quando tutto si mette male. E tutto certamente si sta mettendo male. È inseguito. Tre macchine, un tornante più sotto, cercano di guadagnare terreno. Ma lui guida bene e mantiene un piccolo vantaggio. Vantaggio che aumenta quando si butta per una stradina in salita che attraversa il bosco. La strada si fa sempre più accidentata. Una curva presa male fa volare la vettura fuori strada. Grande tonfo. Tutto tace.
Sugli inseguitori c’è poco da discutere. Hanno evidenti facce da galera e sono armati. Poiché la macchina dell’inseguito non si vede e non si sente più, le auto ora avanzano lentamente, gli occupanti spiano il bosco.
Poi la vettura in coda inchioda, strombazza, fa marcia indietro e va a fermarsi ai margini della scarpata. Lo stesso fanno subito dopo le altre. Due uomini grossi, decisi, che parlano con ferocia un qualche dialetto meridionale strettissimo, scendono dall’auto armi in pugno e dal ciglio della strada vedono di sotto, seminascosto nella selva, il veicolo capovolto. Vanno a controllare mentre altri uomini armati sorvegliano la strada.
La macchina è un rottame, del guidatore nessuna traccia. I due frugano intorno, niente. Poi un rintocco lungo di campane gli fa alzare la testa al cielo. Indicano agli altri, come bambini che hanno visto dove sono nascoste le caramelle, il campanile di una chiesetta di montagna.
Lo scampanio sta segnalando l’arrivo della processione e infatti il gruppo di fedeli con la Madonna in spalla ha raggiunto la chiesa. Uomini e donne depongono la Vergine davanti all’altare mentre continuano preghiere e canti e il prete impartisce svogliatamente le sue benedizioni.
Il rito giunge al termine, i devoti vanno via dirigendosi chi alla volta del paese, chi verso le case intorno, chi verso la fermata della corriera. Pochi si attardano col prete: don Lucio di qua, don Lucio di là. Il prete ascolta ma tagliando corto. Una coppia deve celebrare a giorni il suo matrimonio, una donna con due gemellini pestiferi vuole sapere se l’asilo riaprirà. Le parole di don Lucio sono scabre, con qualche sarcasmo: per il matrimonio è tutto a posto, Dio nell’alto dei cieli non si preoccupa d’altro; quanto all’asilo, il Comune è in ritardo coi permessi, ha tante cose più importanti da fare, pure in terra le priorità di chi comanda sono spesso fondate su criteri imperscrutabili.
«Vero, Muta?»
Anche l’anziana perpetua, detta Muta perché parla troppo, è mandata via senza troppi complimenti. Il suo dovere l’ha fatto, ha preparato la cena (filetto d’asino, buonissimo), ha pulito e lustrato, può andarsene a casa.
«Quant’è grezzo quest’uomo» spettegola Muta per strada parlando malissimo del prete con la madre dei gemellini. «È un ragazzo così scorbutico» dice, «e poi lo senti come parla, gnegnè gnegnè, questi dell’Altitalia chi li capisce. Tutto il contrario di don Galeno che sì, forse gli piacevano le femmine e sicuramente beveva, ma almeno ci potevi scambiare due parole. Questo mamma mia com’è affliggente».
«Ha le sue ragioni.»
«Sarà ma non mi deve affliggere a me!»
E mentre pronuncia stizzosamente questa frase, ecco le tre auto che vengono su a velocità sostenuta. La perpetua, la madre dei gemelli e anche i gemelli si girano a guardarle con curiosità.
«Sarà gente che ha urgenza di pregare.»
Muta fa cenno di sì in modo ispirato:
«Quando il Signore chiama, non puoi dire aspetta, mi devo prendere un caffè.»
Le due donne entrano nel bosco e calano a valle per una scorciatoia. Muta ha già ripreso a dir male di don Lucio.