L'intreccio senza il film, di Enzo Mansueto
Spesso capita di sentire, purtroppo: «Non ho letto il libro, ma ho visto il film». E qui scriviamo «purtroppo» non per sostenere l’aulica superiorità del letterario sul cinema, ma per ravvisare la frettolosa confusione di codici in certi impreparati lettori/spettatori. Questa volta, finalmente, qualcuno potrà dire: «ho letto il libro, ma non ho visto il film». Perché il film non esiste. «Che novità! Da quanti libri non è mai stato tratto un film?». Sì, certo. Ma questo che abbiamo tra le mani è un soggetto nato per il cinema e finito sulla pagina: un cattivo soggetto?
Carla Cavalluzzi, Sergio Rubini e Domenico Starnone avevano buttato giù un soggetto, Il cattivo soggetto, ma i produttori l’hanno respinto e allora, con qualche decina di pagine in più, dialoghi soprattutto, è divenuto un quasi romanzo, visibilmente ancorato al moto dell’azione e alla successione di quadri visuali, propri della scrittura cinematografica. Dalla patinatura romanzata, ciò che resta dell’idea per una pellicola è tutt’altro che disprezzabile e le ragioni che ne hanno, per ora, impedito la mutazione in un oggetto filmico finito pervengono forse più alla sfera economico-produttiva che estetica. Certo, conoscendo gli autori e quanto si va producendo in Puglia negli ultimi anni, non si può parlare di un’idea originale e alcuni cliché buoni per il grande schermo, si impoveriscono semanticamente, più di quanto già non lo siano, se affidati alla narrazione scritta.
Due protagonisti, ad incarnare l’opposizione tra il bene e il male, sono screziati quel tanto che basta per non cadere nel più banale manicheismo cinematografico: don Lucio, prete in crisi sacerdotale, dopo l’incendio dell’asilo per bimbi poveri, è rimandato nel nostro Sud da Brescia a leccarsi le ferite spirituali, mentre medita, lettera già in tasca, le dimissioni dal clero; Mimì Festa, suo cugino, farabutto che oscilla tra allarmante violenza ferina e insospettabile tatto umano. Una conoscenza dell’anima, in quel cattivo, che non può non attrarre ambiguamente il sacerdote dubbioso: «Don Lucio ora deve fare i conti con qualcosa che sta crescendo e che tuttavia respinge. La curiosità per quell’uomo. C’è un certo non so che di Festa che comincia a fargli davvero impressione. La cura che ha messo nell’occuparsi della bambina; e, all’opposto, il ricorso terribile e insieme risolutivo alla violenza; ma anche un suo modo accattivante di tirarti nella tela del suo senso delle cose».
E poi arriva Odette, la cantante, figura femminile che destabilizza e riconcilia il tutto. La storia procede per movimenti abbozzati, a tratti grossolani, destinati come sono ad essere corposamente completati dall’immaginazione visiva. La sensazione percettiva è talvolta quasi fumettistica, o da fumettone cinematografico («pulp», si diceva qualche tempo fa). E non è un caso, forse, che ad illustrare la copertina ci sia la mano di Omar Di Monopoli, scrittore nostrano che, ad altri livelli, ha fatto della scrittura «caricata» del suo Sud – americanizzato dalla rude epica dello spaghetti-western – una riconoscibile cifra stilistica letteraria. Cifra che qui non ritroviamo.
Resta un soggetto inutilizzato. Un intrattenimento che, allontanato per ora dalle sale, ha trovato spazio sulle pagine di un editore generoso. Come non esserlo, con quei nomi in copertina?