Cetta Petrollo, Recitativi d'amore

01-07-2014

L'incontro e la fine, di Daniela Matronola

Esiste un punto, L’INCONTRO, che stabilisce una gerarchia piana tra il prima e il dopo, tra il senza e il con.
Ed esiste un punto dopo, LA FINE, che stabilisce una gerarchia ondulata tra l’ancora e il non più, tra il con della durata e l’ormai senza dopo la durata. Sono i due tempi, le due velocità di questo libro–raccolta che è una ricapitolazione verso una ripartenza. Sono i due tempi, cioè i due sensi o versi del tempo, ben definiti: ad essi allude la Passeggiata in due tempi (1984–2001), prima delle raccolte che ricapitolano questo libro.
Come in termini concettuali, e di trattamento della spinosa figura del tempo, l’idea suggerita è di compimento e reversibilità, così in termini di struttura, quanto a scrittura, il compimento che attiva la reversibilità è tutto giocato nella tendenza dei versi a farsi frasi concluse, perfette. E proprio tra i fili di questa strepitosa tessitura capitano (le) corrispondenze ma alla rovescia, annullate da un insistito senza. A lungo il canale del dialogo è intercettato ma resta chiuso – attende il suo tempo per aprirsi. Poi, dopo le corrispondenze negate, si spalanca la corrispondenza, in una concertazione della parola che trova il proprio ritmo rapsodico nelle ripetizioni, nei refrain, nelle riprese, e, come imitando la canzone popolare, rivela una vocazione non alla chiusura ma, di continuo, al chiudere e riaprire, in un flusso di smentite che procede per svolte logico formali trovando il suo corso in una grazia popolaresca che dopotutto è della canzone, e in origine della ballata.
Per sviluppo lineare, approdiamo al Terzo Tempo (2012) che rende conto della “terza tappa”, cioè della terza stazione di una lunga marcia d’amore che non punta al suo termine, dopo il quale tutto crollerebbe (anzi crollerà) ma prova a consistere in sé stessa, a intrattenersi e trattenersi su di sé – vuole dar conto di ciò in cui essa è consistita incurante della fine. Un andamento lungo, intervallo di ritrazioni e allungamenti, che ci conduce al cuore della raccolta, Recitativi d’amore (senza data, senza tempo, canto eterno). Qui risuona tutto un concerto di formule ripetute – di inviti (“dimmi”; e “vieni”; e “vèrsalo”: con un giochino ingenuo e sapiente attorno a “verso” che è frase o clausola, ma anche direzione e vettore – così cresce una sorta di moto ondulatorio che pare conferire a questa poesia il suono e il respiro del mare, con costanza neurovegetativa che richiama quella soffusa da Virginia Woolf in Le Onde …); e di insistite domande che schiacciano, secondo l’esempio di Prufrock: c’è sempre una “overwhelming question” che non opprime però sta lì, imperterrita, a fare da sirena, a offrire sempre sponda, margine, e (forse, sì) termine,  limite e soglia del vivere e dell’amare, mentre, con echi dickinsoniani, vediamo circolare in questa poesia api e gabbiani, vi cogliamo dentro voli e ronzii. In questo canto, raccolto e centrale, la scrittura torna indietro e ricomincia di continuo: vi prevale un flusso ininterrotto che, tenendoci per mano, procede lungo una sequenza, e solo dopo (ecco questo dopo che si affaccia al dunque), come in un inciampo, rimbalza indietro al punto in cui ciò che sembrava pianamente seguitare era già altro inizio, svolta, apertura di corso.
Ciò è possibile grazie a una formulazione ripetitiva sull’onda lunga, in cui ricorrono e si rincorrono parole–chiave (dimmi, dove, come) tra ricominciamento e incorporazione, oltre al reiterato uso del gerundio che intanto culla questo brodo nella durata. L’effetto è una poesia che cresce, che trova il ritmo: dentro/fuori delle onde, della risacca, che poi esita in battito e martella come un cuore –  è il martello della parola. Dunque una poesia che sta immersa profondamente nella parola concreta, che parla per esattezza mentre si calibra e si ricalibra, e si “setta” sul proprio bersaglio, che non è l’amato soltanto (il compianto Elio Pagliarani, a un certo punto apertamente evocato, ‘agito’ sulla pagina) eppure proprio in lui si fa senso che illumina, significato che rifulge. E poi, come la marea che monta, anche questa poesia, dopo l’intensità battente, implacabile, lascia sgranare e rende rada la versificazione, che allenta il passo, e mostra i buchi confermandosi nel lento scorrimento del gerundio. “In scia di volo” scorrono le Sopportazioni: di assenza, silenzio, digiuno, angoscia, nascita del dolore, frattura, intelletto, finzione, passione – perché si piange disperati ad una morte? Perché tutte quelle sopportazioni, indistinte e insistenti, si presentano alla porta dell’incoscienza o della subcoscienza tutte bullicanti insieme.
A questo punto, come da suggestione già inoculata nel lettore, si riparte: si attiva un libro parallelo che, perlomeno cronologicamente, fa da sponda a tutto il jazz sincopato, alla marea rapsodica, elastica, che ci ha cullati e investiti finora come magma amniotico. Ci viene addosso una Mareggiata, seguita da impertinenti Poesie segrete, che si sciolgono in Ballatelle e impennano in Sonetti: là scoviamo un unico, perfetto sonetto inglese (sapete?, 4-4-4-2) dove con versificare lento e disciolto si allenta la vertigine in accompagnamento che riabbraccia tutto il tempo del libro mostrando con stupore e disordine l’arreso circostante.
Recitativi d’amore di Cetta Petrollo è aperto da una sapiente nota di Maria Grazia Calandrone.