Corrado Sobrero, Nevica sull'Isola di Baro

05-08-2006

Tutto un futuro nell'osceno frutto di banana, di Giacomo Annibaldis

Favola e racconto filosofico tra sorprese e paradossi, ironia e leggerezza... Una piccola Macondo votata alla felicità», ha scritto Giulio Ferroni. Mentre Cesare Segre: «È un romanzo fuori del comune, con una notevolissima capacità di affabulazione». Salutato da tali lusinghieri giudizi (espressi dopo una lettura in bozze) appare in libreria il romanzo di esordio di Corrado Sobrero, Nevica sull’Isola di Baro (edito da Manni, pp. 213, euro 14,00). Sobrero è nato a Torino e vive oggi a Milano, ma si è formato nel Salento, dove suo padre Alberto insegna all’Università di Lecce. È nato nel Sessantotto, anno delle utopie: e ciò è un segno del destino, che si riscontra nel tema e nell’andatura narrativa di questa sua opera prima, essenzialmente un «conte philosophique» in fiaba. Miscelando storie portoghesi e spagnole – con l’incongruenza che si addice alle favole, le quali non hanno confini e non inalberano bandiere nazionali -, Corrado Sobrero ci induce a naufragare su una misteriosa isola che ci appare un po’ caraibica un po’ lusitana, con coordinatte geografiche da Terra del Fuoco (Rio Lento e San Sebastián). D’altronde qui vivono i discendenti della ciurma di Magellano, che vi si stanziarono nel 1572 divenendo produttori di canna da zucchero. Risale a quel tempo lontano, all’affermarsi della monocoltura, la prima e unica e mitica nevicata sull’isola, per cui fu edificata una chiesa in venerazione di S. Maria della Neve. Il lettore è catapultato a Baro nell’anno 1820. Tutto è immobile nell’isola: solo canna da zucchero e sermoni. Niente invece gioielli e colori, niente feste, niente ritrovi. Una cappa di grigiore e oscurantismo incombe sulla comunità, sotto l’arcigno controllo dell’arcidiacono Ribeiro, laido prelato che, mentre esibisce sofferenza e cilicio, accumula tesori e consuma abusi – anche sessuali - sul giovane curato don Paco, un trovatello silenzioso, pensieroso, succubo, segreto poeta amoroso... A causa delle invettive del prelato contro le donne, l’isola ha dovuto subire, anni prima, uno sciopero femminile,un’astinenza sessuale che si concluse con l’elezione nel consiglio degli anziani di un’unica donna, Evangelina. Ogni novità dunque è accolta nell’isola con diffidenza e paura. E così anche l’introduzione di una nuova pianta: cinque rizomi importati a Baro da Hugo Luciendo de la Cruz, il Negociadór, l’unico cui sia consentito uscire dall’isola per rivendere lo zucchero e i suoi derivati di melassa e grogue. Con la festa al Negociadór tornato dal viaggio di affari, s’inizia la «fabula» di un’utopia, cioè della ricerca di un avvenire che rompa gli schemi e la clericale oppressione. La speranza è tutta racchiusa in quel folle investimento a occhi chiusi, nella fede in un «frutto». Che con il «futuro» ha in comune molto più di un’assonanza. Contro l’anatema dell’arcidiacono, difensore della Tradizione e che vede il Maligno in ogni novità, Hugo difende la sua utopia, per la quale ha investito il suo avvenire in crediti «di futuro». E lo difende soprattutto quando, a maturazione delle infiorescenze, si scoprirà che i frutti attesi (e salvifici per l’economia dell’isola) sono banane, oscene nella loro forma di «membri di cane», gialle come il colore del demonio e della ribellione (di giallo, colore del Maligno, si vestirà la bella Conchita per mostrare la sua contrarietà a sposare l’allevatore di porci). Hugo non teme la paura dei suoi concittadini. La paura, sostiene imperturbabile, è benvenuta: «la paura dà un peso all’anima, il peso che consente di lasciare un’impronta, una traccia...». Tuttavia gli eventi precipitano allorché, nel tentativo di colpire il nuovo frutto, sarà appiccato il fuoco al magazzino di stoccaggio. Saranno i due sacerdoti, nella notte, gli incendiari: ma uno di essi - individuato in seguito con il giovane don Paco - ne resterà ucciso, bruciato e caramellato. L’arcidiacono - invece, a prima vista - fuggirà dall’isola. «Incommoda commoda ferunt» era il motto del prelato: i danni portano vantaggio. E così quel crimine e quella morte si risolveranno in un atto di libertà per l’isola di Baro. Dove le donne recupereranno i colori e i gioielli nascosti, la comunità tornerà a far festa, si apriranno luoghi di ritrovi per mangiare banane arrostite e bere grogue. E dove un giovane straniero misterioso approderà per rivendicare anch’egli un suo futuro d’amore. Il Tempo è galantuomo, «Tempus omnia revelat » scriveva Erasmo,nei suoi «adagia» che con Cartesio e la Bibbia erano gli unici libri presenti a Baro. E con il tempo si svelerà anche il mistero dello zuccherificio incendiato. Liberi e felici, nell’isola si sprigionerà un tripudio di sesso collettivo, dove ognuno corona il suo amore segreto. Zucchero sulle banane, l’«orgasmo di un’isola che imparava il piacere». Fu allora che cominciò di nuovo a nevicare, come nel 1572. Perché «la neve è come il tempo, e ogni fiocco è da godere in fretta, nel momento, prima che diventi acqua fredda». Questo è il messaggio «sessantottino» lanciato da Corrado Sobrero in Nevica sull’Isola di Baro. Con stile anaforico, reiterativo e formulare lo scrittore riesce a dare al suo romanzo quel tono epico della «fabula». Fuori dal tempo.