Corrado Sobrero, Nevica sull'Isola di Baro

12-08-2006

Ai Tropici sul peccato originale scende un miracoloso manto, di Folco Portinari

L’attesa è una condizione esistenziale che si dispone in forme e formulazioni svariate, l’attesa dell’amante in perenne ritardo o l’attesa della primavera, l’attesa del primo figlio (il primo libro) o l’attesa del numero fortunato, l’attesa del nuovo Pelé o del nuovo Coppi... L’attesa, infine, del nuovo grande romanziere che si nasconde, come una sorpresa nell’uovo pasquale, nell’opera prima. E opera prima, appunto, è Nevica sull’Isola di Baro di Corrado Sobrero, giovane romanziere torinese. Il sospetto che non si tratti di una storia di ordinaria amministrazione ci viene già dalla copertina. Quest’isola non è tra le Lofoten, al largo della Norvegia, bensì ai tropici, come denuncia appunto il disegno di un verde banano. Tropici brasiliani, in specie, come si capisce dalla lingua portoghese parlata dagli abitanti. Dunque, scopertamente, si tratterà di una neve metaforica, un bianco manto miracoloso che viene a ricoprire, in una conclusione palingenetica finale, tutta l’isola, in una sorta di battesimo purificatore e rigeneratore dopo vicende in varia misura drammatiche perché peccaminose, in una riproposizione nientemeno che del peccato originale. Almeno nella folle interpretazione di Monsignor Ribeiro, despota religioso, rappresentante della conservazione ideologica più oscura.
Il tempo dell’azione è collocato sulla fine del ’700, ma non ci troviamo di fronte a un romanzo storico, cioè a un romanzo di intrigo, per intenderci, benché non manchino i colpi di scena, che ribaltano proprio la scena. Anzi. L’ambizione esplicita di Sobrero è semmai quella di comporre una moderna favola morale. Moderna perché si avvale di problemi attuali, d’oggi (i medesimidel linguaggio politico, e non solo, di casa nostra), con una conclusiva, necessaria, morale della favola. Qualcosa disimile a un’allegoria (visto che siamo nel ‘700, un disegno tiepolesco,del Tiepolo un po’ esotico di Wurzburg). Oggetto: il «cambiamento», l’«innovazione», la «modernizzazione», il «progresso», la «libertà di coscienza»,«Dio» insomma, nella sua onnicomprensività.
Temi che ci sono familiari se formano il quotidiano della disputa ideologica nella nostra provincia. O sulla sua negazione nella sua rappresentazione retrograda.
Mica da poco, allora, il progetto, la buona intenzione. I personaggi che si dividono i compiti illustrativo-didascalici sono: un monsignore dispotico, il cattivo che vede il Male satanico in ogni mutamento innovativo: conservatore, reazionario, convinto d’essere la mano impietosa di un Dio che combatte il peccato in ogni innovazione; una donna coraggiosa, che rappresenta il buon senso, e diventa Governatore dell’isola; un timido prete, don Paco, che incenerisce il Monsignore con le sue stesse fiamme, non metaforiche, invocate e procurate: dopo il delitto liberatorio getta il saio, fugge, cambia identità e torna a Baro, sconosciuto e finalmente rigenerato; Hugo, uno spirito libero, che cambia il destino dell’isola, non solo economico, mutando la monocultura della canna da zucchero, avversata quale volontà di Dio dal Ribeiro, nella più redditizia coltivazione delle banane.
Dietro questa trama sono in gioco i massimi sistemi ed è giusto che un giovane che ha in sé la corda rivoluzionaria li metta in gioco sul serio, proprio come fa Sobrero. Però un romanzo è pur sempre un’opera letteraria, nella quale le buone intenzioni, che gli riconosciamo, hanno bisogno di organizzarsi nel miglior effetto per essere efficienti e captare la benevolenza dei lettori. Eh sì, la retorica, le sue leggi e le sue infrazioni, i suoi suggerimenti. A proposito dei quali suggerimenti, alla fine di questa metaforica nevicata tropicale (il bianco manto ha il valore simbolico dell’innocenza recuperata, del suo candore), mi rendo conto che le considerazioni che ne derivano non sono per nulla generiche e marginali, ma attengono alla ragion pratica, nello specifico. La memoria corre indietro agli Anni 40-60 e a una figura che in molti casi fu determinante, l’editor. Figura che oggi mi sembra in crisi. In quegli anni gli editor potevano essere anche Pavese o Vittorini o Spagnol o Crovi. E un editor per Sobrero sarebbe stato opportuno, che gli tagliasse una cinquantina di pagine. Ma chi? Mi viene in mente Marco Ferrari, uno scrittore da un bel pezzo silenzioso, però autore di un paio di romanzi in consonanza con questo, molto belli entrambi: Tirreno (giocato sull’Elba napoleonica e sulla prospiciente Capraia) e Tristan (sull’atlantica Tristan da Cunha portoghese, popolata da pescatori genovesi e mignotte, quel tanto che basta a garantire il rinnovo della popolazione). Due isole simili a quella di Baro.
Certo c’è gran differenza di ritmo tra Ferrari e Sobrero. L’isola di Sobrero fin dalle prime battute mi ha ricordato un poco Macondo, per un suo andamento picaresco e per una scrittura che tende a liricare. Legittima scelta quanto rischiosa, soprattutto perché richiede attenzione alla misura, essendo facile strabordare. D’accordo, a Márquez han dato il Nobel e a Sobrero lo auguro per il futuro. Oggi invece...
Una favola allegorica, dunque, di conflitti tra uno pseudo-Bene e un Male reale, tra la tradizione statica e la modernità dinamica. L’innovazione vince e supera le resistenze della tradizione sotto specie economicoproduttiva, la coltura alternativa delle banane supera la monocultura della canna da zucchero, con tutti i soprasensi simbolici che accompagnano il fenomeno. Così la concezione religiosa del perdono provvidenziale mette in crisi quella giuridico-punitiva di Monsignor Ribeiro. E qui il discorso si fa chiaramente politico, attuale persino nella terminologia, come s’è detto. La favola finisce con l’happy end, come è dovere di ogni favola. D’altronde questa è un’opera prima. È il primo romanzo e mi domando, da curioso: come potrà essere, se ci sarà, il secondo? Non credo che sia possibile ripetere lo stile dell’isola di Baro, ripartire da qui. Cambiamento, innovazione... Così vuole Hugo.