Edoardo Sanguineti, 75 anni ben travestiti, di Gilda Policastro
Compie settantacinque anni Edoardo Sanguineti, «satrapo patafisico» nella sola definizione (autodefinizione) autorizzata, assieme, magari, alla qualifica di «contemporaneo», divisa col protagonista dell’aneddoto gramsciano che pare la recasse a stampa sul biglietto da visita. L’occasione si celebrava in un convegno bolognese, lo scorso 6 ottobre, inaugurato dall’esordio scenico delle Storie naturali, «materiali» di penna (e ahimé sola penna) sanguinetiana, correva l’anno ’71. Dopo la primigenia ed essenziale Feltrinelli, il testo è ora in nuova edizione Manni (pp. 244, € 16,00) introdotta da Niva Lorenzini e arricchita in clausola da conversazione d’autore col regista della mis en scène Claudio Longhi, sotto l’involucro del sodale Mario Persico già illustratore dei Sonetti shakespeariani (ancora Manni, anno di grazia 2004, vero boom dell’editoria sanguinetiana). Esce pure, intanto, la prima puntata del cosiddetto «terzo romanzo» di Sanguineti, L’orologio astronomico, dopo la princeps francese del 2002 mai vista in Italia, in supplemento al fascicolo monografico della rivista «il verri» (pp. 176, ilverri@tiscali.it) dal minaccioso o solo denotativo titolo “attenzione a Sanguineti”.
Ma del romanzo, subito: dopo l’esordiale neoavanguardistico Capriccio italiano (’63) e, di poco successivo, Il Giuoco dell’oca, «anti-romanzo pop» per Guido Guglielmi, ancora una estesa narrazione, più accessibile delle precedenti, in cui qualche tratto dell’antica maniera, ad esempio la «sbalordita e deficiente» ridondanza pronominale, torna più come marchio di fabbrica che come reale provocazione. Che è quanto per la produzione poetica si viene riconoscendo già all’altezza degli Erotopaegnia, e cioè il transito a una maggior comunicabilità, dopo l’iniziatico laborintico e deliberatamente aggrovigliato esordio.
Parrebbe stavolta intravedersi persino una trama lineare, tradizionale, con l’io narrante –sia pur un io in pezzi, «pluralizzato», «carnevalizzato» (Graffi) che insieme nega di essere personaggio e di se stesso dice: «Ho settant’anni»–, immerso in una vicenda di quête amorosa gravata da un’ombra di attesa, per non dire di suspence. Su tutto, l’emersione nient’affatto a sorpresa dei tratti di metapoetica soliti al Sanguineti autore, come al critico: «sono tutte cose che deve dedurre un lettore, quando c’è. Chi racconta, racconta, e pace. Se mai, depista il lettore, lo inganna a fin di bene». Vale a dire, con Dante col dantista e col travestitore: «attento, tu che leggi, e manda a mente».
Di nuovo il Sanguineti della commistione di altissimo e bassissimo: il testo di finta erudizione galeotto dell’incontro con la Scorpioncina accanto al supplemento femminile dei quotidiani, l’orgia di von Trier coi videogame Daedalus e Labyrinth. Così, per Maria Antonietta Grignani («verri»), già entro il travestimento del canovaccio gozziano, L’amore delle tre melarance (2002), dove agli inserti ipotestuali dotti si sovrapponeva in chiave «devotamente integrativa» (o stracult) un lessico «massmediologico» e «televisionario». E così ancora nell’altra praticamente coeva «emissione live» dei Sei personaggi.com.
«Travestimento», come ormai acclarato, è schietta categoria sanguinetiana che pur nella derivabilità dallo straniamento brechtiano e in certa apparente somiglianza col metateatro di Pirandello (filiazione, quest’ultima, peraltro recisamente negata dall’autore) rimane il lascito incontestabile alle poetiche contemporanee. Per quanto lo si riduca poi all’origine naturale, quasi etimologica dell’attività teatrale («il teatro è mettersi in maschera. Che cos’è il teatro? È travestirsi»).
Alla matrice artaudiana della pura presenza fonico-corporea si rifà invece l’impianto anti-narrativo delle quattro sequenze prototeatrali di Storie naturali, riprodotte in sincrono, giusta l’intenzione autoriale, dalla messinscena bolognese. Come nel bistrattato antenato wanted dai personaggi, le categorie e i ruoli si vogliono rinnegati in atto nello spettacolo ancora da farsi, aderendo il testo a un’idea di teatro come «urto», in cui tutti siano corpo e spazio scenico, con un massimo, al contempo, di «partecipazione e di distacco critico» (dall’intervista a Longhi, in appendice).
In principio era per Sanguineti la«simultaneità», la bomba allestita per l’adattamento ronconiano del Furioso (’69) e, di più, per il progetto poi scongiurato di messa in onda di sequenze contemporanee sui due allora unici canali Rai. Nel day after delle Storie naturali –a titolo l’ossimoro permanente della poetica sanguinetiana– il testo letteralmente esplode in frammenti di senso mai riconducibili a unità, lacerti di parole-schegge scagliate ovunque. Un teatro «atomico», allora, prima che «anatomico» (dall’autodefinizione della poesia sadiana indirizzata a Besson), in cui, combuste convenzioni e tradizione, sopravviva la sola presenza materica, coi relitti, per dire, dell’unità temporale, nell’inevitabile richiamo in applausi a una conclusione. Una fine comunque provvisoria, in uno spazio ancora da riempire fino alla saturazione: i due punti che della poesia d’autore costituiscono la riconoscibile sphragys trasmigrano al narrare scenico che, come la vita, non conclude. Anzi, come la morte: perché Morire per Sanguineti, citando da Andrea Cortellessa in altro minaccioso titolo del «verri», allusivo di uno slogan editoriale anni sessanta, è ostinarsi a vivere. La scrittura sanguinetiana dice allora la morte come antidoto, con l’idea della fuga (la maschera della «morte in vacanza»), al tempo stesso rifugio e approdo: «chiudimi gli occhi» è invito rivolto, non casualmente, alla moglie, personaggio che attraversa l’opera tutta, dall’epigrafe petroniana del Capriccio alla occasionale destinazione epistolare dell’Orologio, pur in criptata sigla L. Amore e Morte, come negli «squarci» lucreziani tradotti anni fa, ma la morte così per dire, e, intanto, vivere e scrivere. Quand’anche versi gioiosamente terribili come «solo chi muore si rivede».