Intervista, di Andrea Busato
Succede che un pomeriggio in auto stai ascoltando Fahrenheit, programma cult di Radiotre sui libri, e ti colpisce l’intervista all’autrice di un romanzo che si presenta un po’ anche come un giallo. Ancor più ti colpisce però quando senti dire che a un certo punto le protagoniste della storia si dedicano al running. E allora prima cerchi il libro, che è La felicità del testimone; e poi, grazie a Facebook, ne cerchi anche l’autrice, Elisabetta Liguori, che così ora ci parla di sé, del suo romanzo e della sua passione per la corsa.
Elisabetta, leggo in quarta di copertina che hai quarantatré anni, che sei al tuo terzo romanzo, che sei leccese e che sei cancelliere del locale Tribunale dei Minori. Cos’altro ci racconti di te?
In realtà sono al mio quarto romanzo. Nel 2009, infatti, ho pubblicato per l’editore Besa “Tutto questo silenzio”, un romanzo che potremmo in qualche maniera definire sperimentale perché frutto di un lavoro a 4 mani. Già questo dice di me qualcosa in più, credo. Dice che la scrittura sta diventando un’ossessione sempre più radicale, ma che mi piacerebbe condividerla in ogni maniera, vincendo l’isolamento che in genere l’accompagna come gesto. All’ossessione si aggiungono solitamente le attitudini naturali, gli studi fatti, le paure, i desideri, ragion per cui sempre più spesso mi ritrovo a scrivere di storie vere, nelle quali mi sono imbattuta per lavoro (sforzandomi di destrutturarle, di modificarle, di studiarne e svelarne i meccanismi interni), o della gente della mia terra con la quale convivo bene o male da sempre.
Proviamo a dire qualcosa di questo libro. Comincio io. Intanto dico che è tante cose, una delle quali è di sicuro anche il giallo, perché parte da un delitto cui si deve dare un colpevole. Ma è anche una delicata storia d’infanzia, perché il “testimone” di cui auspichiamo “la felicità” è una bambina. Vuoi continuare tu?
La capacità di testimoniare è riconosciuta a chiunque, ma quando si tratta di un bambino la sua versione dei fatti, in gergo tecnico giuridico, è detta “ fragile”. Ne va preventivamente verificata l’attendibilità, infatti, e per farlo è necessario che i giuristi si confrontino anche con le neuroscienze, con il massimo del rigore possibile e una dose in più di visionarietà. La felicità di Flavia, la bambina protagonista del mio ultimo romanzo, è dunque una felicità enormemente fragile, composta dalle variazioni della sua breve memoria e da ciò che è sotto i suoi occhi, oltre la sua finestra. Ha assistito alla morte di un uomo, per caso, una notte d’estate, e le circostanze l’hanno indotta a credere che solo raccontando ciò che ha visto quella notte, la sua vita, e quella delle persone che ama, potrà diventare più felice. Lei è una piccola narratrice, quindi: racconta per sopravvivere ed entrare in relazione con il mondo.
A quali riferimenti stilistici ti riconduci? Io ci vedo un po’ l’indagine alla Camilleri, attenta non solo a una verità processuale ma a quella verità più umana che spesso nelle cronache resta dietro. Ma anche il gusto per un narrare un po’ incompiuto, alluso più che definito.
La struttura tipica del giallo è uno dei numerosi attrezzi del mestiere che mi piace utilizzare. Un sorta di formina per la sabbia, con la quale tirar su il mio castello di parole. La qualità della sabbia che compone il castello è invece una questione un po’ più complicata. Per quel che mi riguarda si tratta di una mistura dalla composizione variabile. Mi piace confrontarmi con stili diversi, utilizzare registri a volte tra loro disarmonici, per creare atmosfere drammatiche o comiche. Soprattutto mi piace lavorare sulla psicologia dei personaggi, metterli in scena in tutta la loro complessità, renderli vivi. Proporre visioni alternative, congetture, ipotesi, stimolare l’immaginario del lettore, penetrarlo verticalmente, andare oltre il tempo e lo spazio, così come siamo soliti intenderli. Partire dal reale e da quello suggerire ucronìe.
L’elemento che mi ha convinto a proporti ai lettori di questa rivista è ovviamente quello legato alla corsa, che per entrambe le protagoniste diventa una scoperta che dà un nuovo ordine alla loro vita. Certo, una delle due è solo una bambina e l’altra un’assistente sociale un po’ sovrappeso, ma a noi non interessa mai la prestazione, quanto piuttosto il vissuto. Allora spiegaci cosa hai deciso di far cercare a Flavia e Concetta nel correre.
Entrambe, ma in maniera diversa, cercano una verità adatta a loro. Come per molti, anche per loro il running coincide con una forma di felicità possibile, corporea, materiale, a portata di mano. Flavia si trova in quella età senza tempo che è la preadolescenza. Ha la velocità nelle gambe e nella testa, così correre per lei diventa uno strumento utile a incidere sul paesaggio, mettendolo in connessione con il tempo passato e con quello futuro. Per comprenderlo e agirlo. Lei corre verso Concetta, verso il cambiamento, verso la scoperta di sé, anche se non lo sa. Concetta, dal canto suo, è alla ricerca di una seconda possibilità, di un risultato concreto, di una storia nella quale identificarsi fino in fondo. Anche lei corre verso Flavia e, nello stesso momento, accanto a lei. Flavia racconta, Concetta ascolta. Flavia corre, Concetta segue nella scia. Correre regala a entrambe finalmente una meta certa, una fatica utile e positiva, capace di mettere insieme i pezzi di due esistenze apparentemente in stasi.
E di Elisabetta runner cosa ci racconti?
Non corro da molto. Sono passati solo tre anni dalla prima volta, ma sembrano decenni. Correre non è fare solo dello sport, se così fosse non avrebbe avuto tanta presa su di me, sono certa. Sono pigra ma determinata, caparbiamente contraddittoria, per questa ragione correre mi fa soffrire nella stessa misura in cui mi fa gioire, e dunque funziona. Ancora me ne sorprendo: le prime volte che arrancavo su percorsi improbabili mi sembrava un gesto del tutto illogico. Poi sono arrivati i primi risultati sul respiro; è subentrata la scoperta del corpo (il mio e anche quello degli altri), delle infinite potenzialità del paesaggio; in ultimo è sopraggiunta la chimica e la fantasia. Ora non posso farne a meno. Non posso davvero, dal momento che il mio corpo me lo impedisce materialmente, in quel suo modo tirannico che solo chi pratica abitualmente questa attività, conosce e comprende.
E’ una passione che hai iniziato a condividere con altri?
Mi piace correre in solitudine perché corro nello stesso modo in cui scrivo. In entrambi i casi ho bisogno di poche cose. Una base tecnica minima: buone scarpe e un buon pc. La giusta dose di rispetto per le persone che mi sono accanto, per gli eventuali lettori e per me stessa. La musica che amo, da usare come fosse un tappeto, così da rendere il terreno più morbido e alleviare la sofferenza (un po’, ma non del tutto). Un orologio al polso per non fuggire ai confini del tempo. Qualche momento conviviale ogni tanto, perché tra appassionati ci si riconosce, si va all’essenza delle cose, ci si saluta per strada, anche di notte, anche nel gelo, anche in prossimità del crollo, e questa condivisione autentica mi pare che valga gioco e candela. Del resto non mi interessa vincere, ma resistere. Resistere tra gli altri. Correre è democratico: tutti ne sono capaci, non esistono differenze di classe, chiunque può provarci se ne ha voglia, a prescindere dalla strumentazione o dalla tecnica acquisita, ma solo chi ha quel surplus di genio, intuito e generosità necessari, vince. Io non vinco infatti, io resisto. Io esisto. Personalmente aggiungerei che correre mi fa stare bene nel momento in cui mi riconcilia con una certa idea di controllo che da sempre mi assilla.
In che modo, come dici, correre ti aiuta a trovare il controllo?
Cerco di spiegarmi meglio. Correndo a volte mi pare di poter fermare il mondo, esercitando un controllo rigoroso sul mio corpo, il respiro, i piedi, il peso. Mi sento padrona assoluta di me, persino del mio pensiero, che entrando in una specie di circolo ipnotico indotto dalla fatica e dalla ripetizione, si libera da ogni altro condizionamento esterno e diventa voce unica spinta verso l’infinito. Il trip dura poco, lo so, ma per quel che dura è pura felicità. Una felicità minore, fatta di minuzie, l’unica che possiamo permetterci in tempi di crisi, forse. Correre, secondo me, ha molto a che fare con la felicità, infatti, con il modo che ciascuno ha di sentirsi lieto, o più semplicemente di aspirare ad esserlo, perché ben rappresenta la distanza, lo sforzo, il percorso tra la nascita di un certo desiderio e il suo realizzarsi. Qualunque sia il desiderio.