Teatro lazzarone, di Giovanni Tesio
Biellese di nascita e torinese di residenza e di elezione, Emilio Jona è ben noto per la sua attività di poeta, di drammaturgo, di narratore, di saggista, di ricercatore di cultura orale (suo ultimo lavoro in questa direzione, allestito con Franco Castelli e Alberto Lovatto, è il volume grosso sulle canzoni di monda pubblicato da Donzelli, Senti le rane che cantano).
Come romanziere è tornato è tornato ultimamente in circolo con il recupero di due titoli: il primo, Inverni alti, pubblicato dall’editore padovano Amicucci nel ’59 ( e riproposto da Giuseppe Zaccaria due anni fa); il secondo, Un posticino morale, pubblicato da Scheiwiller nel 1982 e riproposto or ora da Manni. Due romanzi per due diverse stagioni che ben rappresentano due diversi momenti di riflessione sul romanzo e sulla scrittura.
Più prossimo alla stagione neorealista (o, più esattamente alle sue uscite di sicurezza), Inverni alti sfugge alle maglie strette in cui l’etimologia critica potrebbe costringerne la natura fuggitiva. Una storia ambientata nei due anni di guerra che precedono l’anno decisivo della liberazione: la vita di una borgata di montagna in cui la storia irrompe con le sue raffiche di guerra ( i tedeschi, una spia, i partigiani, tre ebrei clandestini, i rastrellamenti, i morti ammazzati) restando, tuttavia, ai margini del perimetro narrativo.
Più complesse, stando alla Nota dell’autore, sembrerebbero la gestazione e la scrittura antifrastica di Un posticino morale, che sarebbe stato scritto prevalentemente nel 1954, che viene in parte pubblicato sulla rivista “Il Ponte” nel ’62, che fu “interamente riveduto” nel ’64 e pubblicato soltanto nel 1983, “mutandone l’originario carattere picaresco in un acre e grottesco affresco di un’osteria della provincia piemontese”. Un itinerario che meriterebbe per sé un’inchiesta filologica. Ma che anche così denuncia fin da subito, rispetto a Inverni alti, una più che sintomatica prossimità al clima dello sperimentalismo neoavanguardista.
Pur restando fermo a una configurazione affine (in Inverni alti una borgata, in Un posticino morale un’osteria), la narrazione prende qui un taglio assai più mosso e spezzato, e conseguentemente mette in gioco una scrittura tutt’affatto diversa. Direi anzi che lo sperimentalismo di Jona riesca soprattutto evidente proprio nella scelta stilistica, che Bruno De Maria – fin dal risvolto di copertina della prima edizione, qui ripresa in postfazione – definisce (forzando un po’) come “incessante blaterio”, come “stracomica mucillagine linguistica che è il suo epos e la sua liquidazione”. Mentre a me pare che la scrittura di Jona – ferma restando la “stracomica” vis – non si perda mai nel “babelismo smitragliato"come disse Zanzotto) della scrittura più frantumata.
Va da sé che la natura polemica della narrazione è, per così dire, già in re, nella scelta del “posticino morale” che è poi un’osteria (spazio per eccellenza ambiguo), nella disposizione di personaggi che tra le manopole di un calciobalilla, “il solito barbera” e una partita di ramino o d’altro narrano istorie – evidentemente “non illustri” – che restano picaresche nonostante il recinto breve che le contiene.
Ne viene una sorta di teatro lazzarone sul cui proscenio il demiurgo-burattinaio tira i fili di voci che dicono vite irregolari, vicende strampalate, esperienze reali e mentali: il pittore Volpone, geniaccio espressionista, maestro di arte povera, spacciatore di teschi, bestemmiatore randagio, predicatore matto, folle iconoclasta, l’imbianchino Giosuè, il satanico Sapino, e poi Cirio con il suo episodio di “mala educación”, la sua irresistibile avventura con Marfino, il battitore del ferro che parla per “fenomeni sonanti”, in terra dell’ultimo vate (il poeta per antonomasia, il fallocrate più compulsivo che abbia avuto l’Italia entre-deux-siècles e primo Novecento). Ma anche la sua “spartizione” coniugale, la sua fuga o emigrazione, il suo colto delirio oratorio, il suo visionario organigramma politico.
E poi Cesare Trovati (o Trovati Cesare), il “quarto cavaliere dell’Apocalisse”, il nuovo Dante che rivisita il nuovo inferno in versi furibondi e traballanti. E ancora il lestofante Alessandro Varzan, le sue donne innamorate o aggrappate, una fauna di scelta umanità, letterariamente nata a contrasto con l’efficientismo delle magnifiche sorti e progressive (qui rappresentate attraverso la voce di un personaggio che parla con un plurale maiestatis gonfio e ottimista) in un ben riconoscibile paese che s’industria tra opifici e filatoi a vivere la nuova frontiera del capitale.
Nel suo controllato calderone – un po’ cèliniano – di oralità e di parlato, di alto e basso, di miseria e nobiltà, la scrittura di Jona frigge tra onomatopee, dialettalità, forme sintetiche, giochi di parola, registri astratti e concreti, dialoghi secchi, stile nominale, commistione di aulico e prosaico, ironia e carnevale. Pur risentendo del tempo in cui è nato, Un posticino morale regge bene a distanza il bisogno di rovescio che l’ha mosso. Specie in alcune pagine di sorprendente attualità.