Enza Silvestrini, Partenze

13-11-2009

Le separazioni che si fanno poesia, di Valeria Ragno

Partenze (Manni) di Enza Silvestrini, giovane poetessa napoletana, è una raccolta di liriche che si configura come un lungo monologo senza segni di punteggiatura, un doloroso addio alle illusioni e alla speranza, una partenza che sembra rievocare soprattutto il significato etimologico del termine: dividere in parti, separare. Il libro è infatti diviso in tre sezioni “supra liminem”, “sub limine” e “fragmenta”, tre parti diverse di un unicum, tre “part-Enza”, tre facce della stessa autrice che tendono ad indicare un percorso squisitamente personale, frutto di un vissuto emotivamente intenso che viene a volte espresso in termini poco evocativi ed estremamente crudi.
Le prime due sezioni raccontano di un padre malato, il cui corpo corroso dalla malattia e “bardato da milioni di scialli” resiste dignitoso alla “vecchiaia sanguinaria”, descrivono l’esperienza della degenza ospedaliera che inverte i ruoli di padre/figlia in quelli di madre/figlio, fanno intuire un rapporto non sempre sereno che si placa nel momento della resa dei conti in cui “tutto e il suo contrario/ è sorprendentemente indifferente”.
Il racconto si snoda per flash, spesso impietosi, un lento calvario di notti insonni che porta all’inevitabile allontanamento (“in un soffio/ sei già andato”), analizzato in “sub limine” dove, come comparse senz’anima, medici e infermieri circondano il lutto e la sofferenza mentre l’autrice sente ormai di appartenere “al popolo dei cimiteri”, dove vagabonda ogni volta che avverte affievolirsi la forza e l’intensità del ricordo.
La terza parte è, se possibile, ancora più personale. Ancora un ospedale, ancora una perdita, un aborto prematuro, subito come una maledizione improvvisa: “non ho avuto tempo/di darti nomi/fantasticare su oroscopi / e somiglianze”.
Sullo sfondo dottori “tutti più o meno/ uguali nel loro/ sciacallaggio protervo”, infermieri svogliati, anestesisti e sale operatorie, girandole “di luci fredde/ che espongono/ ogni corpo/ a una miseria infinita”, le stanze di donne in cui “le vittoriose” sono quelle con le culle a fianco, mentre il tempo scorre insieme al dolore e “incartapecorisce/ dentro il buco/ che mi hanno /inferto dentro”. Frammenti di vita che raccontano cicatrici fisiche e morali, giudizi spesso spietati, ricordi che restano pervicacemente attaccati all’anima e si trasformano in atmosfere e odori, colori e sensazioni precise. Parafrasando Heidegger, non si tratta di fare poesia sull’esistenza ma a partire da essa: se è cosi, la verità della poesia è in colui che la fa e occorre essere disposti a mettersi in gioco rivolgendo lo sguardo verso se stessi e decifrando le voci che ne emergono. Enza Silvestrini lo fa e lo racconta, con spietato coraggio, in questo volume.