Filippo Senatore, Pandosia

01-01-2010

La pandosia di Senatore, di Maria Carla Maiolo

 
In Pandosia, la nuova raccolta di poesie di Filippo Senatore, i quattro elementi (il Fuoco, la Terra, l’Aria, l’Acqua) sono la materia chiamata in causa, costantemente evocata, sebbene l’avvertenza iniziale dell’autore, e ancor prima una lunga epigrafe, ci inducano a restringere il campo dell’attenzione alla sola acqua. La poesia che apre la raccolta, Adele, realizza compiutamente ciò che si sostiene: “Con gli occhi di brace / hai arato i campi /… stemperando sorrisi / ai cieli azzurri /… hai navigato / sui laghi eburnei”. La brace, i campi, i cieli, i laghi, sono appunto il Fuoco, la Terra, l’Aria, l’Acqua. Posta nella sezione Persone, è l’incominciamento che ci condurrà in quelle successive: Luoghi, Profezie, Eros, Navigazione, Il germe della follia, Magna Grecia, Dodecafonia, Finale di partita. Pur privilegiandone uno, l’immaginazione materiale dei quattro elementi non esita a giocare felicemente con le loro combinazioni: “Avevo cinque o sei anni e mio padre mi portò un giorno al fiume Acheronte a pescare con un’armatura che annegava dilaniato da quel fiume. A dodici o tredici anni sognai il proseguimento della storia. Un fuoco con il banchetto funebre in onore del re. Il canto di un aedo che non dimenticherò mai più. A trentasei o trentasette anni iniziai a scrivere Pandosia, la città misteriosa descritta da Stradone, Tito Livio, Aristotele e Ecateo di Mileto. Pandosia è un non luogo dove annegano i nostri sogni. Nelle nove sezioni della raccolta compaiono vicende senza tempo, un intricato pantano di memorie fluviali e marine, uno scorrere lento ed inesorabile dell’esistenza”.
Tema complesso, l’Acqua. Gaston Bachelard vi scrive un saggio di estetica letteraria, mal tradotto in Psicanalisi delle Acque, purificazione, morte e rinascita rispetto all’originario L’eau et les r il Fuoco, la Terra, l’Aria, l’Acqua êves, con “il duplice obiettivo di determinare la sostanza delle immagini poetiche e l’adeguatezza delle forme alle materie fondamentali”. La meditazione sulla bellezza della materia soffriva, per Bachelard, la mancanza della “causa materiale”. Lo sbilanciamento, traeva origine dalla considerazione che il nostro spirito è dotato di due forze immaginanti che danno vita rispettivamente alla causa formale e a quella materiale, in breve, l’immaginazione formale e l’immaginazione materiale sono concetti fondamentali per affrontare lo studio filosofico della creazione poetica.
Il filosofo della rêverie, della “fantasticheria sognante”, autore della più conosciuta e organica “psicanalisi del fuoco”, che ha indagato la “legge dei quattro elementi poetici”, afferma che quella del bambino “è una rêverie materialista. Il bambino è un materialista nato. I suoi primi sogni sono sogni di sostanze organiche”. E vi sono ore in cui il sogno del poeta creatore è tanto profondo e naturale che egli ritrova inaspettatamente le immagini della sua carne infantile. Nel capitolo dedicato al primato dell’acqua dolce, Bachelard sostiene il primato dell’acqua terrestre su quella marina, ritenuta “disumana”, che i moderni mitologi non mancano di differenziare. Insomma “l’acqua dolce è la vera acqua mitica”.
E anche qui Senatore possiamo leggerlo con il filosofo francese, poiché anche per sé, tra mito e storia, pone l’accento sulle acque dei laghi e dei fiumi. Lo fa ancor prima di “confidarci” il suo sogno infantile.
Egli sceglie, infatti, come epigrafe due citazioni che introducono, secondo chi scrive, il tema ispiratore. La prima è ripresa dal finale del quarto atto del Guillaume Tell, libretto di Etienne de Jouy e Hippolyte-Louis-Florent Bis (tratto da F. Schiller) per la musica di G. Rossini e propone il dialogo tra Guillaume, Hedwige, Jemmy Mathilde e poi Tous in coro. Il francese, lingua originale, ci dona anche la musicalità delle rime e corrisponde alla versione italiana nota come “tutto cangia il ciel s’abbella”. Inno alla libertà che torna simbolicamente a splendere, nella Svizzera del XIV secolo, insieme alle mutate e più favorevoli condizioni atmosferiche: la scena, non a caso, si svolge sul “Gran Lago de’ Quattro Cantoni” dove i buoni (Guglielmo e i suoi) si salvano mentre le acque “cesseranno di essere cattive”, come profetizza Leutoldo, nella IV scena, solo dopo aver inghiottito Gesser, il nemico austriaco, raggiunto da un dardo di Guglielmo, balzato su uno scoglio per non mancarlo. Il combattimento è sul lago, che quasi assurge a ruolo di personaggio, poiché non solo libera la scena dal malvagio Gesser ma la muta sostanzialmente: la burrasca, l’uragano, la bufera che evoca la VI scena, solo nella VIII appunto, “va cessando… a poco a poco si dileguano le nubi e il cielo si rasserena…”.
La seconda citazione tratta da Tito Livio, Ab UrbeCindita, Libro VIII, Cap. XX, è ricca di segni di espunzione per i salti ripetuti che invita a compiere e che si arrestano quando l’urgenza del tema si sostanzia: “…procul Pandosia urbe… increpans nomen abominandum fluminis, iure Acheros uocaris inuit…”.
Non lontano dalla città di Pandosia qualcuno, provato dalla fatica e dalla paura, maledicendo il sinistro nome del fiume gridò: “A ragione ti chiamano Acheronte”. Quel qualcuno è un soldato di Alessandro I d’Epiro, il Molosso, che abbandonata Taranto e raggiunta la vallata tra Cosenza e Pandosia, al comando del suo re insieme agli altri compagni, stava attraversando un guado malsicuro dopo giornate di pioggia che avevano scompaginato l’esercito e le strategie militari. Alessandro infatti aveva evitato con cura quei luoghi, Pandosia e l’acqua acherusia, sconsigliati dall’oracolo, pena il compimento del proprio destino on la morte, prima di partire dalla sua terra animato da sogni di conquiste ad Occidente. Ma come sovente avviene, e qui si stringe il cuore, l’uomo cercando di evitare il proprio destino finisce per coglierlo in pieno. Troppo tardi Alessandro realizza, per l’imprecazione del soldato, di trovarsi nel luogo fatale, tra Pandosia e Cosenza, che conduce nello stagno infernale. Colpito da un giavellotto lucano, mentre era già prossimo lla terraferma, viene trascinato dalla corrente, sino ai posti di guardia dei nemici che orrendamente lo mutilano.
Qui riaffiora la citazione, che Senatore riprende, e ci fa sapere che tagliato a metà il corpo di Molosso, i nemici, ne mandarono una parte a Cosenza (e tennero l’altra per ludibrio). Sappiamo che solo una donna, mescolatasi alla folla li pregò in lacrime di fermarsi per un attimo e chiese il corpo del re, benché sconciato, per riscattare il marito e i figli in ostaggio al nemico. Questo pose fine alle mutilazioni.
Senatore, tra i balzi del testo, sceglie quella porzione che ci informa che ciò che restava del cadavere venne sepolto a Cosenza (anche città natale del poeta) e che soltanto quella donna se ne curò. Le ossa vennero inviate al nemico a Metaponto e di lì trasportate via mare in Epiro, alla moglie Cleopatra e alla sorella Olimpiade, rispettivamente sorella e madre di Alessandro Magno.
Sulla ormai esplicita connessione tra le due tombe d’acqua dolce, del lago e del fiume, si continuerà a dire ma non senza pure appuntare l’attenzione sulla dimensione, sicuramente interiorizzata da Senatore, che accoglie la relazione tra i disiecta membra e la poesia sin dai tempi dell’Iliade. Quella poesia come esperienza di verità, di bellezza oggettiva a partire dalla misura, dove nel verso disarticolato, i frammenti, le parti diventano corpo unico, come corpo unico è la salma di Ettore che trascinata dai cavalli di Achille, per volere degli dei si mantiene intatta…
Leggendo Pandosia non si può fare a meno di ricordare le acque violente, le acque oniriche, le acque cullanti, dei laghi, dei fiumi, dei torrenti. L’endesmosi tra poesia e leggenda, nasce dal sogno profondo, che si stabilizza: “Il Busento, nella sua gola immensa, / scroscia in un argenteo canto. Il Crati, incastrato / nel cuore della roccia col suo lento incedere, mi culla”. Così il poeta, nella sezione Navigazione, nel riaffermare le proprie origini consentine si consegna al materno, nell’immagine del fiume che culla. E ancora: “Venni dall’odorosa terra / come i miei avi; / nella fragranza delle zolle tornai; / nella fertilità delle idee, concepii il mondo dei suoni, / il profumo delle rose, / la tristezza dell’autunno, / il lamento d’Alarico” (Alla cofluenza).
Va detto che, già nella precedente raccolta, il tema si preannunciava chiaro: “Non disturbare / i cavalli estinti del Crati / al tempo di mia madre /… da Pandosia a Sibari immagina il galoppo nello stile ionico” (Al tempo di mia madre in Noi i ragazzi del Parttnoy di Milano).
Navigazione è una sezione che contempla i Navigli, le coste Frigi e altro; con Bachelard ci domandiamo allora “La morte non è stata forse la prima navigatrice?”. Egli non manca di sottolineare anche che decidere di intraprendere una navigazione presuppone fortissimi interessi, che classifica come “chimerici”; gli interessi di cui si sogna e non quelli che si progettano. Senatore, sicuramente affascinato dalla morte (partire è un po’ morire), sa da vero sognatore che essa è il primo vero viaggio. L’immaginazione profonda stabilisce che l’acqua abbia il suo ruolo nella morte, ha “bisogno dell’acqua per conservare alla morte il suo senso di viaggio”. E la barca di Eric Lerouge, in Primo Blu, che è forse Todtenbaum, mantiene in sé l’archetipo dell’albero della morte? Simbolo materno anch’esso come l’acqua, che come jung ci avverte in merito ai simboli della trasformazione, fa sì che il morto (posto in seno all’albero e affidato alle acque) venga rimesso alla madre per essere “rinfantilizzato”?
Nell’ultima sezione, Finale di partita, torna una inquietante acqua cullante: “Il ritmo delle apparenti stagioni / spegne le clessidre bianche / e il sonno moltiplica / sensazioni di morte. / Venni per inebrianti ricordi / verso incoscienti significazioni / che noi evochiamo con lacrimoso soliloquio. / All’apparire di un brumale paesaggio, / i pensieri s’infittiscono e si svolgono / con lenta dolcezza alla pura condizione / del vago incantamento / che si culla nelle acque torbide / della ragionevole fobia / senza peraltro sprofondare…” (Vago incantamento).
L’acqua, unica tra i quattro elementi può cullare, ci porta, ci addormenta. Anche se torbida, comunque, fa pensare ai sogni di Novalis: al sognatore che avviluppato dall’acqua meravigliosa e portatrice di benessere, vive l’incantamento attraverso le sostanze. Ma non è ricorrendo a un’improbabile quantificazione, a una sorta di conta dei tanti versi che evocano l’acqua nelle poesie di Senatore, che veniamo a capo della poesia di Pandosia, piuttosto bisognerà accettare che “L’acqua è un tipo di destino… non più soltanto il vano destino di un sogno interminabile, ma un destino che trasforma incessantemente la sostanza dell’essere… Il mobiliamo eracliteo è una filosofia concreta, una filosofia totale. Non ci si bagna due volte nello stesso fiume perché l’essere umano, nel profondo, ha il destino dell’acqua che scorre… L’essere che si vota all’acqua è un essere preso nella vertigine. Egli muore a ogni istante, senza fine qualcosa della sua sostanza sprofonda… la morte quotidiana è la morte dell’acqua… - che scorre sempre, sempre cade, sempre trova fine nella sua morte orizzontale… il dolore dell’acqua è infinito”.
Soccorre così Bachelard che per avere la “costanza del sogno che produce una poesia, bisogna avere davanti agli occhi, più che immagini reali, quelle immagini che nascono in noi stessi”.