Franca Mancinelli, Mala kruna

03-03-2008
Una piccola corona di spine per una delle migliori giovani poetesse italiane, di Alessandro Puglia
 
Come una madre nera nell’isola pronta a tessere storie; con le movenze di una donna sempre in seno alle cose; con la lucida violenza verbale di una passionaria la poesia di Franca Mancinelli si colloca in uno spazio aperto, con le sue voci (di perdita e abbandono) che stanno dentro la carne come un ago. Mala kruna è la parola magica che diventa cornice dell’opera, il segreto che regge sullo sfondo della pagina, una voce aperta tra ritmi ben scanditi e orchestrati e che dona all’opera una struttura molecolare ruotante attorno un unico simbolo: Mala kruna, ossia, in croato, “piccola corona di spine”. E nel viaggio di un’esistenza irrefrenabile si vede il volto di un nonno «che ascolta la radio e dice / a lui di lasciarti stare», un ricordo che «cresce ruga sul gomito», una presenza che è sempre là «oltre la giostra» o «oltre la linea mobile del grano». La giovane autrice marchigiana ha la densità e la pienezza della sua terra, un paesaggio che ammira mentre tutto passa («strade in collina dove il cielo / traspare dalle foglie»). E non solo, quel «lasciami come un gatto lontano / alla svolta» che fa pensare tanto alla poesia di Dario Bellezza, marche queste che non sono mai forzate: l’immagine del gatto è «sul ciglio di una strada / dove s’aprono valli di viti e ulivi». La tradizione, la ricchezza di un paesaggio collinare morbido e denso è tutto fissato dalla pienezza dei ricordi: «quando il filmino allenta / tornano al fianco solo nei pranzi: / con quanto stupore puntano il dito / su quegli anni di gioia». La poesia di Franca Mancinelli è in quel dito, in quel gesto che fisso punta una stagione che non potrà tornare più. Le mani allora diventano la culla dell’adolescenza, premute sulle labbra sono il luogo eterno dove si avvicina un fiore o si imprime il pensiero. In Mala kruna è forte l’idea di un’unione indissolubile: «siamo uniti e intrecciati con pazienza», «Saremo due camicie / appese l’una dentro l’altra», «staremmo come due cucchiai riposti / asciutti nel cassetto / [...] / o resteremmo nudi come chiodi / dimenticati in mezzo alla parete». L’allontanarsi di una certezza si profila intensamente nella seconda sezione dell’opera, Il mare nelle tempie, dove la donna torna nella sua stretta carnalità, nel suo essere sempre attaccata a un scoglio come “un anfibio sulla sponda” o “un’alga bruna” sempre investita da una luce obliqua che taglia e divide. Il mare sparso ed esteso sotto i colli è vissuto come uno spasimo, un mare che “batte nelle tempie e addormenta”. E poi un’infinita dolcezza che fa di questi abbandoni una trama fitta e presente: il mare lascerà spazio a quel «partire per tempo / accompagnarsi in gita». Nel trapasso dei giorni, nell’odore di una terra «morbida e pestata molte volte», la poesia di Franca Mancinelli resta sospesa da una spinta: una presenza costante che imprigiona il tempo, una presa, un’arteria spezzata, un’ombra dietro una culla.