Francesco Macciò, L'ombra che intorno riunisce le cose

18-11-2008
Il fragore del tempo, Giuliana Altamura

Scriveva Caproni nel 1956: «Ormai nessuno dubita che il filone della poesia ligure del Novecento, grazie soprattutto a Montale, sia riuscito a fare del paesaggio ligustico, con le sue solenni e radicali desolazioni e negazioni […], il nudo, aspro paese emblematico della nostra anima contemporanea». Ed è sicuramente in questa linea ligure – che ebbe come massimi rappresentanti Sbarbaro, Montale e Caproni – che s’iscrive l’opera poetica di Francesco Macciò, autore di una nuova e intensa raccolta pubblicata dall’editrice leccese Manni. L’ombra che intorno riunisce le cose ha la capacità di restituire lo spirito di un luogo che è allo stesso tempo memoria e immutato specchio esistenziale dell’uomo, forgiando immagini di grande efficacia in quella musicalità aspra fatta di «parole esatte» che tanto lo avvicina ai suoi predecessori liguri.
La raccolta è costituita da nove sezioni di diversa lunghezza, i cui versi sono ispirati dai paesaggi torrigliesi o della Val Trebbia. Poi scese a disfarsi una neve impetuosa, la prima parte, si apre con le parole di una donna che sfidano il fragore del tempo nella promessa di un’eternità conchiusa, ma il silenzio dell’amore non è capace di soggiogare «l’arsura» che brucia il giorno e muove già lentamente i passi di lei altrove. La potenza di cui i ricordi caricano le cose dà vita a immagini fortemente evocative, come quelle fotografate nel villaggio fantasma di Tecosa rievocato in Compresenze, dove il passato oscuramente riecheggia fra «muffe di suoni» e nomi perduti, oppure come nell’ambientazione montana di Sul monte Scietto, in cui «un amico ostinato» guida il poeta verso una «croce di neve» sulla vetta faticosa e metaforica. Se Rondeau e Un buio celeste citano o riscrivono Dante, Visita a Giorgio Caproni omaggia il grande predecessore nel ricordo di un incontro avvenuto a Loco nell’88, mettendo in versi alcuni cardini della concezione poetica di Caproni, che ha donato «tutto il buon sangue» per l’inattingibilità ingovernabile della parola, «mutazioni segrete che dissolvono la materia».
La seconda sezione, Il monte Bormano, richiama il culto della dea celtica della caccia cui era sacro il monte Antola, presto cancellato dall’avvento della romanità. Questo monte «di faggi giganti», dove la dea Bormano stringeva al suo laccio le prede, assurge a simbolo delle civiltà perdute, del canto dei vinti, del soccombere della stessa Poesia. A questa rievocazione dello spirito pagano del paesaggio ligure segue un viaggio nel tempo nostro e mostruoso che spazia da riferimenti poetici a Sanguineti, Spaziani e all’Antologia Palatina, alla trasfigurazione degli stessi luoghi natii travolti – spesso rovinosamente come in Paesaggio, permutazione – dalla modernità. Alla fine dell’estate richiama i giochi dell’infanzia partendo dall’ironia musicale di uno scioglilingua per concludersi con l’adulta e cupa consapevolezza di chi può osservare «oltre il crinale la strada nera».
Con In scarti di scienza sottile l’ambientazione si sposta dai paesaggi agli interni, privilegiando in particolar modo quelli dei bar, abitati da personaggi semplici e autentici, giocatori esperti di scopone scientifico che con lentezza resistono alla desensibilizzazione dei rapporti che la velocità del mondo contemporaneo ha stravolto. Recuperando anche il dialetto per rendere pienamente e con mimetismo la verità di questi luoghi il cui significato oggi è quasi del tutto perduto, Macciò dipinge i tratti di un’umanità genuina dai discorsi scarni, che la vita ha fortificato con le sue vittorie e le sue sconfitte: «vincere sempre | anche sconfitto, nel suo cadere | preciso capire quello che gli altri | fingono dopo di avere capito». Alla metafora del gioco di carte si riaggancia anche Scopone scientifico, la prima delle prose che compongono la sezione successiva, Nuvole, dove il poeta osserva e descrive con acutezza la partita di quattro giocatori, scandendo le loro mosse con le citazioni latine delle regole dello scopone riportate in un trattato napoletano del settecento, estese figurativamente alla vita stessa: guardare lontano, prestare attenzione, avere memoria, ma soprattutto saper accettare serenamente il caso, ciò che «senza preavviso può riservarci la vita».
La sezione Nel verde sempre più cupo si apre agli affetti familiari, come nelle poesie dedicate alla figlia e al padre, ed allo stesso tempo è quella maggiormente avvolta da un senso di solitudine, «sostanza femminile che non invecchia», quasi inevitabile compagna della memoria cui ci si abbandona. Troviamo anche espressioni significative e quasi programmatiche della «poetica della visione» di Macciò: la sua voce può cantare e decantare la vita perché legata alla terra, parte stessa degli elementi dai quali è nata e capace di cogliere «quel poco che verrà dopo» nella profondità del suo sguardo. «Tutto è debole in un corpo | debole, tutto tranne gli occhi, | la forza sicura degli occhi | nel delirio degli stessi pensieri». Ink tablets è una «scrittura di confine»: l’io poetico si presenta come una guardia al confine, «custode senza un nome di uomini e di cose», e guarda alla realtà come «concrezioni di materia incagliate nella memoria». Come non accorgersi che a parlare è il poeta stesso e della stessa condizione della poesia? Dopo aver assistito al dolore, il suo sguardo non può che isolarsi montalianamente sulle singole cose, scorgendo in esse un significato più grande, mettendo al riparo il senso da quel «nemico invisibile» che le inghiotte. In Percezioni dell’anima, infine, regna l’immagine dell’acqua, «un ristagno di nubi oppresse» dove il poeta e la moglie innominata possono fissare la verità immensa di un attimo nel loro riflesso destinato a disfarsi.
L’ombra che intorno riunisce le cose è indubbiamente un volume imprescindibile, capace di dare nuova vita alla grande tradizione poetica ligure cui appartiene, senza nulla togliere all’originalità della sua scrittura materica ed evocatrice, esatta e musicale. Come scrisse Mengaldo a proposito di Sbarbaro: «acquisisce la Liguria ai luoghi memorabili della poesia italiana, sempre irrobustendo l’idillio col senso linguistico dello scabro e dell’essenziale».