Anche a Macciò piacciono le visioni notturne e gli incontri che tali sembrano. Usa il classico espediente, noto a Robert Stevenson, Jean Potocki, Jorge Louis Borges e ad altri ancora, travestendosi col nome di un misterioso conte di Witzell, e a se stesso riserva il compito di curatore del manoscritto da lui ritrovato. Tutto si svolge in un clima che vuole trattenere il fascino dei luoghi e delle persone, tra presente e passato, tra realtà e finzione, senza tracciarne però l’epitaffio. Il protagonista cammina dentro la notte di Trieste, leggendaria città di frontiera, luogo borderline, carico di suggestioni letterarie, di evocazioni di ogni tipo che sembrano volteggiare nell’aria mescolandosi a un presente sfuggente, ma fino a un certo punto. La narrazione non può non essere discontinua e frammentata se si tratta di un vagabondaggio che termina alle prime luci dell’alba ma potrebbe ricominciare al tramonto. Dice il passeggiatore, mentre cammina:”…le gambe vanno da una parte, la mente da un’altra. Si creano sovrapposizioni, scorrimenti su piani diversi, pensieri doppi. Quando qualcosa che vediamo ci cattura, invade gli spazi interni, entra nei nostri pensieri e li trasforma”. Incontra i protagonisti della notte - baristi, prostitute, autobus, taxi, donne strane e sagge, e le figure del proprio immaginario infantile, usi e costumi di un tempo ma praticati ancora oggi, come il rito dello scopone scientifico che vede giocare in una vecchia taverna e che descrive in pagine di notevole intensità metafisica. Non poteva non evocarmi La variante di Lüneburg del goriziano Paolo Maurensig in cui protagonista è una partita a scacchi giocata sulla scacchiera dell’esistenza. La scrittura limpida e svagata di Macciò, molto sensibile ai dettagli, non si abbassa mai alla pseudolingua “attuale” (non a caso l’eteronimo è un inattuale aristocratico) che troppo spesso siamo costretti ad ascoltare e a leggere.