Ogni incipit – di più: ogni componimento: di Giacomo Leronni è un’iterata, cadenzata e fedele professione di poetica all’interno di un mondo smarrito, sfinito all’esistere ma mai arreso al suo stesso sguardo, sempre vigile e radicato, arroccato fra linguaggio e valenza emotiva: “accolto l’olgraggio: / m’impunto nell’aria violata / poi ai miei compagni / dispenso l’ombra”… “Scalfirlo, il tempo / o trascorrere indenne / non distinguendo / la carne dal pensiero: / crescere stemperando / la gioia nel turgore della spina”… La Polvere del bene gli sfrigola, gli volta intorno: lui verso su verso la raccoglie, poi la mette nello scrigno, sotto teca come unica, potenziale reliquia salvifica, a metà strada tra agile equazione disperante e rito immobile della Compassione: “E perfino i titoli delle tre sezioni, accompagnano la caligine etica, il grigio auscultarsi dentro una militanza lirica, però, mai sazia, mai oziosa o dimentica: “Dimore restie”, “Onore al silenzio”, “A valle del dolore”… Tutto il ’900 da cui veniamo gli smotta intorno, lo assiste incedere come le grandi anime del Limbo dovevao sorvegliare il passaggio esemplare di Dante e del suo Virgilio, ombre morte e viventi nella stessa misura: Luzi, Sereni – così come Viviani, la Szymborska, e tutti noi, forse davvero, montalianamente morti senza saperlo… Morti alla storia, risaliti d’inferno ma impaludati ancora in un purgatorio neghittoso d’eventi, in un millennio che più non sogna anzi sporca i cieli: “Più in là / alfabeti generati dall’ombra / vite trincerate nel sogno. / … E poi qualcosa / acquattata in fondo / silenzio in cui tracima / l’inquieta oscurità del mondo.” Leronni (Gioia del Colle, 1963) che è poeta nel limbo dell’età (né giovane né vecchio, direbbe Luzi), insegna francese, collabora con riviste importanti, e si è già fatto episodicamente onore, prima di approdare con questa raccolta a uno dei migliori esiti delle ultime stagioni. Anche perché si è saputo liberare dalla schiavitù degli stili, delle mode imperanti (becere o iniziatiche, recitate o bolse), privilegiando un ritmo tutto suo, accanito ma pausato, lungimirante e avulso: “Azzardo l’inventario del mattino: / il crampo dell’argento / il fermento che muove dalla pietra.” Perché Leronni ripudia aulici novecentisti, astiose polemiche, anatemi ideologici, apocalissi etiche, e “accetta invece la sfida dell’esistere, si logora nel confronto” rileva Francesco Giannoccaro – e condividiamo anche noi questa fertile patente d’impegno onesto, quest’antidoto di quiete radiosa: “in un’abbagliante pioggia di volti / mi sostieni, con fune di cristallo”… Una delle più belle poesie di Montale additava, ammoniva gli uomini che non si voltano a fermarsi e raccogliere anch’essi le scorie pure, gli sguardi in scheggia, i pubblici segreti, insomma la Polvere del Bene della poesia. Il pronipote Leronni ha la pazienza (e il talento) per osare, arrischiarsi nella stessa, pulviscolare ma luminosa via di fuga: “La brace dell’alterità / vittime ineludibili / abbracci destinati alla macina. / Mi volgo, accolgo la fiamma / della limpidezza: / nella mia carne / di sconcerto e frenesia / il rogo morde, il rogo è puro.”