La poesia di Tramutoli che si illumina del niente, di Andrea Di Consoli
Le poesie di Giancarlo Tramutoli, poeta potentino nato nel 1956, pur rifacendosi alla tradizione epigrammatica, nonché alla tradizione delle iscrizioni latine di natura occasionale e d’intervento sui vizi e le storture della società, porta a estreme conseguenze il discorso tutto novecentesco (iniziato con i crepuscolari) dell’antipoesia, dello strozzamento dell’aulica e della retorica classica (pur essendo l’antipoesia una precisa retorica, sia pure con regole precise, e una difficile gestione economia in “levare” delle parole, che vengono usate con parsimonia e con il massimo dell’efficacia).
Il ’900 è stato il secolo che ha spezzato il “belcanto”, portando la poesia rasoterra, e non mi riferisco tanto ai futuristi o ai loro “nipotini” degli anni ’60, che hanno reinventato su basi sonore e provocatorie la magniloquente retorica classica, quanto ai tanti poeti antiaulici che hanno, appunto, strozzato definitivamente il collo all’aulica classica. Questa linea antiaulica e “rasoterra” si è spesso accoppiata con la poesia gnomica (sentenziale) e con la poesia comico-burlesca. Tra i poeti di questa linea potrei citare almeno, dopo i crepuscolari e i neo-crepuscolari della “linea lombarda” (Erba, il Pagliarani di La ragazza Carla, ecc.), Toti, Scialoja, Giorgio Weiss, Patrizia Cavalli, Attilio Lolini, Roberto Linzalone e Vito Riviello. In questo tipo di poesia viene totalmente disintegrato ogni “poetese”, ovvero ogni gergo facile della poesia di maniera, ogni forma di ermetismo o di orfismo, e, soprattutto, ogni idea di poesia come ispirazione o illuminazione (scrive Tramutoli in questo suo nuovo libro appena pubblicato dall’editore Manni, L’ultimo Tram: “Si dice / che Ungaretti / pagasse delle mostruose / bollette della luce”; laddove Ungaretti è il massimo esponente della poesia “scovata come in un abisso”, cioè il poeta che s’illumina d’immenso). Tramutoli, invece, non s’illumina di niente, anzi, si pone alla stessa altezza della realtà, della palude del contemporaneo, e riduce la poesia a sentenza o immagine irriverente del quotidiano, ovvero a cosa drammaticamente misera tra le troppe cose misere del mondo.
Quella di Tramutoli è una poesia del “minimo”, una poesia spesso degradata a battuta di spirito (in questo ricorda il Vito Riviello comico e battutista di Monumentanee), come quando scrive: “Nel convento / il sugo / si fa con i prelati”. Vi è totalmente assente, com’è evidente, ogni retorica della luce e della salvezza e ogni fiducia nell’uomo (e, proprio come i latini, mettiamo Catullo o Marziale, Tramutoli dimostra di conoscere bene la miseria degli uomini, e da questa miseria non riesce a scorgere nessuna palingenesi possibile).
Con Tramutoli, alla maniera delle ultime bellissime poesie di Attilio Lolini, il poeta del nichilismo frivolo (Sebastiano Vassalli definisce invece la sua poesia come “maledettismo frivolo”), il poeta diventa colui che si guarda allo specchio e vede soltanto uno zombie, un poveraccio tra una moltitudine di poveracci, un flâneur depresso, un grillo parlante divorato dal malumore e dal pessimismo, nonché da un’autoironia corrosiva, ma anche onesta, ai limiti dell’autosberleffo: “Io lavoro in una banca / sopra la quale campo / sotto la quale crepo. / E oggi intanto / ho fatto pure un ammanco”.
Il poeta, per Tramutoli, è un essere intrattabile che inietta veleno nelle smorfie rassicuranti e autoconsolatorie della poesia “scenografica” ed evocativa dei “poeti della domenica”; è un essere asociale che non crede in nessun “noi”; è uno scrittore che offre le sue “lampadine” (tutto l’opposto delle “illuminazioni”) alla società che è sempre decaduta e melmosa al massimo “da ridere”. Nulla c’entra il moralismo, essendo sempre il poeta stesso a essere sbeffeggiato e commiserato in prima serata.
L’ultimo Tram conferma fedelmente un tipo di poesia che in Lucania ha espresso almeno due talenti, ovvero Vito Riviello e Roberto Linzalone. Riviello, come sappiamo, ridusse una scatenata poesia surreale con venature civili e neorealiste a comico “tabarin” dadaista, ai limiti della farsa; Linzalone invece, poeta corale di Matera, di poesie non ne scrive più (per scelta), e si affida a canovacci comici e buffi improvvisati alla bisogna per gli amici. Tramutoli si iscrive felicemente in questo filone antiaulico e comico-burlesco che però non è una “linea” affatto secondaria della poesia lucana del secondo ’900.