Giò Stajano, Pubblici scandali e private virtù

15-03-2007

Vita spericolata, di Maria Claudia Minerva

Il suo certificato di nascita è stato rettificato il 4 maggio 1984: “Gioacchino Stajano” diventò “Gioacchina Stajano”. Sesso femminile.
Giò, anzi Gioacchina, mostra il certificato perché è stufa di sentirsi definire “transessuale”, parola che giudica “senza senso”. Continua a ribadirlo anche in questi giorni, tornata alla ribalta grazie al libro-intervista realizzato da Willy Vaira: “Pubblici scandali, private virtù. Dalla Dolce vita al convento” (Manni editore).
“I generi sono due – dice Giò – maschile e femminile. Transessuale non esiste”.
Tu, invece, volevi essere donna, senza nessun equivoco.
«Proprio così, donna. Per questo mi sono sottoposta all’intervento chirurgico, a Casablanca».
Quando ti sei resa conto che provavi attrazione per gli uomini?
«Da adolescente, negli anni del liceo nel convento dei Gesuiti di Lecce. Scoprii di essere attratta da un compagno di collegio. Gli scrivevo lettere affettuose, una di queste fu intercettata dai gesuiti che avvertirono i miei genitori».
Come la presero?
«Molto male. Mio padre non accettava la realtà. Mi fece anche sottoporre ad un intervento chirurgico ideato dal professor Nicola Pende, famoso endocrinologo, che sosteneva di “guarire” l’omosessualità con l’impianto di estratti di ghiandole di gorilla. Io non volevo operarmi, ma accettai dicendo a mio padre: se l’intervento non riesce, mi dovrai accettare comunque. La “cura” infatti fallì, ci fu un rigetto, e mio padre mi accettò com’ero».
Nell’82, poi, il cambiamento di sesso…
«Sì, la mia vita divenne all’improvviso piena di gratificazioni, perché finalmente potevo essere una vera donna. Ne combinai moltissime, in quello stato d’euforia. Girai anche dei fotoromanzi-porno con il famoso Gabriel Pontello, pubblicati sulla rivesta “Supersex”. Arrivarono purtroppo anche in Italia, con grande imbarazzo per la mia famiglia. Non mi dissero niente, ma adesso mi rendo conto delle amarezze che i miei genitori e i miei fratelli hanno dovuto sopportare per causa mia».
Prima di cambiare sesso, com’era la sua vita?
«Mi sentivo emarginata. Dopo la scuola, mi iscrissi a giurisprudenza a Roma, ma l’ambiente non era adatto a me. Negli anni ’50 c’era troppo machismo e io divenni oggetto di scherno, così, nonostante il mio primo “trenta” abbandonai l’università. Avevo una stanza in via Margutta, ed entrai negli ambienti artistici».
Fu allora che conobbe la pittrice Novella Parigini?
«Esattamente. Novella mi incitò a dipingere, mi insegnò delle tecniche, feci delle mostre. Poi mi iscrissi al Centro sperimentale di Cinematografia, ma anche l’ambiente del cinema era piuttosto chiuso. Solo un bellissimo giovanotto, fratello di uno dei più noti conduttori di telegiornali Rai e ora Mediaset, di incrollabile fede democristiana, si avvicinò a me e con lui ebbi per la prima volta una relazione affettuosa».
In genere com’erano le sue relazioni?
«Prima di operarmi, ho pagato io gli uomini. E quando non avevo soldi, arrivavo a rubare. Il demone della lussuria mi spingeva a fare cose ripugnanti. L’intervento che mi fece diventare donna fu il riscatto per me».
In che senso?
«Nel senso che “dopo” hanno pagato me. Misi un’inserzione sul Messaggero. Ebbi un sacco di clienti. Mi sentivo valorizzata e vendicata da quello che avevo dovuto subire per tanti anni. Ma fu una vita di perdizione».
Negli anni Sessanta hai conosciuto Fellini, Moravia, politici come Andreotti e altri.
«Fellini lo conobbi nell’autunno del ’59, dopo la pubblicazione del mio libro “Roma Capovolta”, in cui per la prima volta confessavo di essere omosessuale. Fellini mi volle nel film “La dolce vita” per interpretare me stesso. Ma non finì bene. perché lui voleva che io interpretassi l’omosessuale-macchetta, tutto mossettine. Io invece, con la mia educazione rigida, ne ero incapace. Ci lasciammo male. Mi richiamò comunque per un altro film, diceva che gli portavo fortuna e così ad ogni nuova pellicola mi chiamava sempre per i provini. Poi però sceglieva altri attori. Comunque, mi apprezzava anche come pittore e acquistò un mio quadro».
Ricordi qualche altre aneddoto di quegli anni?
«Una volta feci arrabbiare Gina Lollobrigida, madrina di una festa di Carnevale al Piper. Io avevo una parrucca bionda e lei mi vide al suo posto sul palco scambiandomi per Monica Vitti. Dovetti inseguirla per chiarire l’equivoco. Un’altra volta, al Premio Strega, Andreotti mi scambiò per una signora e mi fece il baciamano. Quando seppe che ero io, impallidì. Tutte le foto scattate in quell’occasione furono ritirate».
E dell’incontro con Moravia cosa ricordi?
«Lo conobbi a Sabaudia. Facemmo amicizia. Illustrai un suo racconto per “Palyboy”. Venne a casa mia per vedere i miei quadri, gli piaceva tanto la macedonia che gli preparavo, perché alla frutta aggiungevo pezzi di cioccolato».
Poi, sono arrivati il pentimento e la redenzione. Fino a coltivare l’idea di farsi suora.
«Dopo tutto questo il Signore ha voluto degnarsi di farmi capire l’abisso di perdizione e mi ha perdonato accogliendomi nella sua grazia. Io ho fatto questa pubblica confessione che mi copre di fango solo per far capire la grandezza della misericordia del Signore».