Giovanni Bernardini, Fuga dalla notte

01-04-2010
La stella della cultura lontani dal buio, di Valeria Nicoletti
 
Armato di penna e di un’infinita collezione d immagini a sua disposizione, Giovanni Bernardini escogita la sua personale Fuga dalla notte, infilando, uno dietro l’altro, sei racconti brevi, schierati contro l’avanzare del tempo e il tabù sociale della morte, a guisa di legione letteraria.
Mescolando a un pizzico di filosofia un crepuscolarismo che sfida la rassegnazione all’infido calendario e un’attitudine realista che sfugge ad ogni possibile incursione verso il pessimismo ma scivola con piacere nel surreale, lo scrittore, di origini pescaresi ma ormai irreversibilmente salentino, sembra riprendere le fila di un discorso interrotto: avvolgendo la scrittura con la sua consueta atmosfera familiare e intimista, racconta con rinnovata fantasia l’impalpabile dialogo tra vita e morte, che è solito preannununciare il momento dell’addio agli orizzonti terreni.
Come scene diverse di uno stesso quadro, le sei narrazioni sfilano e si ricompongono per formare un’unica inquieta scenografia. Il professore che si trova faccia a faccia con un ricordo d’infanzia che torna a trovarlo, sfidando ogni legge logica e temporale; la vedova, intrappolata in una sorta di limbo dell’anima che, quasi appesa al soffitto della sua stanza, contempla gli oggetti tutti rimessi al loro posto e rivede in un flash i volti importanti della sua vita; l’avvocato Aldo, a cui la morte ha concesso due anni di vita, a patto che intrattenga un epistolario d’amore; Florica, la tormentata badante di Bernardo, autrice dell’epilogo più scioccante e surreale dell’intero libro; infine Luigi, lo sfortunato cagnolino che si perde in un misterioso maniero e l’arrogante Dao Ci.
Dei sussurri di un’antica voce ai saggi moniti di libri incompresi, la morte s’insinua nell’esistenza dei protagonisti, a volte come un inquietante memento, altre come una presenza perenne, come una montagna innevata di cui a stento si scorge la vetta all’orizzonte, ma che immobile, paziente, resta ferma in attesa di un ingresso trionfale.
Che inevitabilmente arriva, attraverso un sogno, una telefonata, un ricordo, un caso. Ed è contro questa arbitrarietà del destino che Bernardini impugna la penna e imbastisce illusioni salvifiche contro l’eterno sonno di chi si sta avvicinando al suo ultimo sipario, con l’unica arma concessa alla specie umana: la scrittura. Come se le ore passate con la penna in mano lasciassero in sospesa immobilità la clessidra e tenessero lontani la notte e il buio. E così emergono da un insensato tabù, per parlarne in termini realistici, sinceri, con la stessa lealtà di un duello.
Con l’ultimo racconto, il disegno trova il suo punto di fuga, ribadendo l’importanza del linguaggio, della cultura, della scrittura di fronte all’oblio che avviluppa l’individuo, di fronte alla paura della morte, traguardo finale di una vita che non promette né fama, né memoria.
E mentre i libri della biblioteca del giovane Dao Ci sfidano le fiamme mortifere e bruciano in un rogo ignorante, inascoltati ma invitti, la luce immortale della letteratura resta come stella fissa nel cielo, ricordo perenne dell’importanza di quella che Bernardini stesso definisce “la fede laica nella cultura”, chiave di lettura di tutta la raccolta.