Harvard Diary, di Francesco Erspamer
La tesi di Antonelli, linguista all'Università di Cassino, è che il parallelo indebolimento della tradizione letteraria (sempre meno frequentata dagli scrittori) e delle illusioni dell'impegno (ossia della possibilità di rispecchiare la realtà e intervenire in essa) abbia spinto la narrativa italiana fra le braccia dei nuovi media - televisione, pubblicità, internet, rap. È in questo senso che la si può definire (suo il conio del termine) "ipermedia", cioè più media dei media (e dunque mediatica ma anche mediana e mediocre). In maniera convincente Antonelli applica l'etichetta a quegli autori (Nove, Santacroce, Scarpa) che con più consapevolezza hanno non soltanto descritto il consumismo ma si sono appropriati della sua voce, ipermedia appunto. Mi pare dunque che il termine sia equivalente a quello di "blank fiction" (cioè romanzo "vuoto", "in bianco"), usato dalla critica anglosassone per libri come Meno di zero di Ellis o Generazione X di Coupland; e che al pari di quello potrebbe aiutarci a comprendere un fenomeno di ben più ampia portata e durata, ossia l'ingresso della narrativa nell'epoca della sua riproducibilità tecnologica, quando per la prima volta la fruizione privata di una storia non avviene più necessariamente per mezzo della scrittura. Purtroppo Antonelli rinuncia subito all'impresa. Benché il sottotitolo prometta un'indagine della scrittura di "oggi", l'introduzione riduce il campo avvisandoci che "la stagione della lingua ipemedia è già finita", che un "ritorno all'ordine" (qualunque cosa significhi) è imminente. Ma anche rispetto a un ambito così ridotto la campionatura è insufficiente: gli esempi tratti da opere narrative sono pochi e casuali (molto più frequenti i riferimenti a saggi e recensioni), e poche e casuali sono le opere prese in considerazione (ci sono autori marginali come Consorti e Lanzol e mancano Elena Ferrante, Piersanti, Luther Blisset, oltre al vero pop, Evangelisti, Melissa P.), senza alcuna spiegazione dei criteri che hanno guidato la scelta. All'origine temo ci sia la persistente, deleteria idea del critico come arbiter elegantiarum, guida, sacerdote (la "missione del dotto" di fichtiana memoria). "Non sarei tanto ottimista", dichiara Antonelli: "La degustazione della letteratura richiede papille educate". Gli scrittori sono gastronomi e gourmet, i lettori no: "Chi li aiuta a distinguere il pregiato invecchiamento della lingua di Mari dalla maderizzazione della Capriolo o della Fusini?". È una concezione non solo pessimista ma anche paternalista e antiquata. Più ancora dei media i romanzi sono globalizzati e globalizzanti: i loro lettori sono capaci di digerire testi scritti a migliaia di chilometri di distanza, in lingue e culture diverse, magari decenni o secoli fa. Perché non dovrebbero capire la prosa di Mari? E se non ci riuscissero, non sarebbero loro ad avere bisogno di un esegeta bensì Mari di un editor.