Autoscopia della memoria, di Gianni Bonina
Non c’è libro più faticoso di questo nel vasto repertorio di Bonaviri: certamente nessun altro è cosparso di tante ripetizioni ed è profilato a tal punto di palindromi e palinodie da coprire di inverosimiglianza quella che nella sostanza è una autobiografia dettata dalla memoria. Scritto nell’arco di quattro anni, con lunghe e pesanti interruzioni, riletto in maniera del tutto superficiale se non addirittura non rivisto affatto, più che al lettore comune Autobiografia in do minore si offre allo specialista che voglia documentare la vita dello scrittore incantato dai sensi, ricco com’è di dati e riferimenti che venendo dallo stesso autore costituiscono un deposito prezioso cui attingere. Ma di documento comunque si tratta, non di narrazione. Il racconto è testimoniale, più circostanziale che circostanziato, come reso oralmente anziché scritto e meditato. Di conseguenza lo stile è analogico e anagrafico, del tutto privo di quell’accentazione lirica che è il segno distintivo della ricerca estetica bonaviriana. Le pagine che in questa prospettiva possono essere fatte salve sono quelle dove Bonaviri racconta gustosi aneddoti di gioventù e le ultime due nelle quali egli spicca il volo sulla pietra di Camuti, la pietra convegno dei verseggiatori di Mineo, per celebrarne il senso metaforico e il destino personale. È qui che ritroviamo il Bonaviri che amiamo, elegiaco e alcinesco, il Bonaviri che pure nelle ultime e più recenti prove, Il vicolo blu e L’incredibile storia di un cranio, testimonia una vena ancora bene alimentata dalla sua vocazione mitografica.
In questo Manni invece si è trovato a parlare di sé in una chiave d’intonazione che non è quella servita nel complesso dell’intera sua opera a spiegare il mondo immoto e l’enorme tempo dal posto di osservazione del suo io minuscolo e corpuscolare, ma ha lasciato che la coazione a spiegarsi muovesse da un campo di germinazione dove l’ipertrofia dell’io finisce per fagocitare la sfera esteriore. Il risultato è una arida compilazione di nomi, date, luoghi e referti di morte che fanno ammettere all’autore di avere scritto «pagine arruffate» e che, se sembrano svolgere la funzione omerica di stabilire (com’è nella descrizione delle navi e delle genti achee all’inizio dell’Iliade) la base di massa di una imminente e attesa morgana di storie fiabesche e icastiche, non sortiscono che una tassonomia di storie cellulari, stati anagrafici, genealogie entro un’idea di panel che vuole dare conto di un nome e di un ceppo. Ma benché ridotto ad accanito e machiavellico agrimensore del proprio passato, quando ne è stato altrove il cantore ispirato dagli dei, l’ariostesco e sognante autore siciliano è in questa sede che rivela il proprio mondo non più ideale ma reale. È qui che dice di sé tutto ciò che appartiene al solo passato sul quale conserva non solo interesse a ricordare ma anche la memoria più vivida: il passato remoto. È nell’arco di questa stagione, chiusa e conclusa tra Mineo e Catania, prima della partenza senza ritorno che ne segnerà la vita, che Bonaviri ferma la memoria: una memoria proustiana che sembra nascere da un gioco di rimandi da un ricordo a un altro e che appare prodigiosa non solo per i particolari recuperati ma anche per lo sforzo compiuto a risvegliarla: uno sforzo tale da costringerlo a fermarsi spesso e dire a se stesso «basta» per la paura di sentirsi male e finire preda della sua indomita sindrome ossessivo-depressiva che lo accompagna da ragazzo. E da medico è forse alla ricerca della sua eziopatogenesi che Bonaviri si dedica scrivendo un libro nel quale prova a mettersi a nudo, come di fronte a se stesso e alla sua coscienza. Ma più che a scopi terapeutici lo sforzo di memoria dell’autore sottende l’intento sempre vivo di tornare al passato, alle illecebre e alle suggestioni della Baudanza e della Stradalunga: perché Bonaviri non si è mai allontanato dal suo microcosmo minenino e non è mai cresciuto, sicché mal sopporta un’età avanzata che lo spinge a rivolgere al suo ripudiato e vituperato alter ego l’accusa di essere un «vecchio stronzo e nevrotico senza pace» e altri epiteti di non diverso detrimento.
È a Mineo che Bonaviri esprime qui per la prima volta il desiderio di essere sepolto ed è a Mineo che circoscrive la sua vita narrabile. Nulla infatti ci dice della sua vicenda successiva se non per brevi metalessi in dispersi brani in corsivo che vogliono essere stazioni di posta o stanze della tortura, dove compie rapide incursioni nell’età in cui scrive, così creando una specie di double coding che integra una volontà di sdoppiarsi e di tenere distinte le due identità: quella giovanile, che è tutta nel libro, e quella senile, che è appena tinteggiata in fughe separate. E allora se di autobiografia si vuole parlare, pure nei termini di un «racconto di scoordinata sopravvivenza» come rimarca a correzione il sottotitolo, è a una sola parte della vita bonaviriana che occorre fare riferimento. Sicché di un’autoscopia più correttamente si tratta, che Bonaviri scrive per tappe sì ma di getto, senza controllare alcun elemento e incorrendo in vistose ma rivelatrici zeppe: non verifica se un parente è realmente ancora vivo; non si informa circa la causa di morte di altri; non controlla le carte topografiche di Catania al punto che Via Plebiscito finisce inopinatamente per essere «sulla sinistra venendo da Piazza Stesicoro»; e addirittura, in uno stato che potrebbe sembrare di indolenza ma che involge piuttosto il portato di una condizione di incoscienza, alla stregua della scrittura automatica, finisce per chiosare «come mi pare di avere già scritto», espressione che può invalere solo in una pronuncia orale. Un’autoscopia dunque, necessaria all’ottuagenario sognatore bambino per ricostruire Mineo al tempo della sua età aurea, quando tutti i parenti erano vivi e la famiglia costituiva il migliore dei mondi immaginabili. Ora invece, solo ad evocarla, Bonaviri non può esorcizzare la morte che per mezzo di interiezioni che – osserva la curatrice Anna Grazia D’Oria – agiscono a celebrazione della caducità della vita, il tema che fa da contrappasso e desinit al florilegio di persone vive e all’esorbitanza della vita di cui si arriva l’eco di un magnificat.
L’esistenza, che nessuna traccia lascia nel mondo, e il suo processo di degradazione (al cui principio naturale Bonaviri crede per fede, talché è dalla sua attività che spera possa fuoriuscire l’anima) accreditando nella visione bonaviriana quella che Bufalino chiama «la maledizione di Eraclito», l’impotenza ad arrestare il divenire e le metamorfosi. «Il tempo passa e tutto inghiotte» osserva Bonaviri, spirito atrabiliare e coscienza risentita, da biologo degli incrementi infiniti della vita qual è stato a tanatologo di senechiana allure qual è diventato, un peter pan con le rughe che aspetta Alice perché lo riporti attraverso lo specchio nel paese delle meraviglie. E che giunto all’età in cui tutto appare greve – e anche il caldo estivo minaccia danni fisici, quando era l’elemento propugnatore per andare a Fiumecaldo a sentire con l’orecchio ai tronchi la natura parlare – raduna tutti i parenti, perlopiù morti, per un’ultima volta.