C'era una volta l'eroe mito, di Giuseppe Fiori
Ho sempre diffidato degli articoli che nel titolo hanno un punto esclamativo o interrogativo, si presentano subito eccessivi, come un saluto troppo caloroso. Per lo più sono o retorici (punto esclamativo) o fintamente ammiccanti (punto interrogativo).
Allora ci deve essere almeno un buon motivo per aver intitolato l’articolo che state leggendo Chi ha rubato Pecos Bill?
E almeno un buon motivo apparente…c’è.
Ho da poco pubblicato una storia poliziesca intitolata, appunto, Chi ha rubato Pecos Bill? (Manni Editori), e sento ancora il desiderio, se non addirittura la necessità, di parlarne, di stirare le pieghe della vicenda ambientata in un quartiere di Roma, Trastevere, dove per lungo tempo ho vissuto e lavorato.
Mi rendo conto che il tutto suona irrimediabilmente come pubblicità per me stesso, il titolo esplicito di una raccolta di scritti di Norman Mailer, che evidentemente ha lasciato una traccia nella mia memoria.
Ma, vi assicuro, le intenzioni non sono pubblicitarie – o, almeno, non soltanto – sono piuttosto da ricercare in quella normale condizione di un autore che si pone, anche solo per necessità di pubblicazione, di fronte alla sua storia come lettore. Il fantasma che sembrava definitivamente uscito di scena dopo che la recita era stata scritta, ricompare, con una diversa seduzione, dopo averla letta.
E questa seconda volta la recita è più esplicita, ha perso gran parte del mistero in cui era avvolta la prima volta. Insomma, per paradossale che possa sembrare, il fantasma esce di scena più lentamente, forse perché la lettura ha i suoi tempi e, talvolta, indugia e rallenta proprio per non veder scomparire, alla luce del giorno, quell’esile intreccio di forme che ci ha tenuto compagnia per tutta la veglia.
A questo punto un cenno alla storia debbo pur farlo: ho detto che si tratta di una storia poliziesca, con un classico commissario che indaga e la classica suspence per scoprire chi è stato. Ma chi è stato a fare che? Non a uccidere, perché nella vicenda non ci sono omicidi: è una soft crime novel senza cadaveri, ma con furti di fumetti, di un cavallo e di una pistola compiuti con intenti diversi da diversi personaggi.
E nello scenario dell’Isola Tiberina, di Trastevere, del Ghetto e del Gianicolo si muove un commissario di polizia fluviale, la cui azione investigativa è diretta non tanto a scoprire i colpevoli quanto a fare in modo che nessuno di essi si faccia male.
Un commissario disarmato (per il furto subìto) che ha deciso di vivere una sorta di “anno sabbatico mentale” coerente con l’incarico tranquillo e isolato che le sue vicende professionali gli hanno destinato. Un desiderio di interrompere, per un tempo dato, il suo affannoso operare, come in un armistizio.
Eroi disarmati
Anche Pecos Bill era un eroe disarmato (per scelta), un fumetto italiano degli anni ’50, vissuto per una stagione non lunga, ma rimasto come una piccola icona pacifica, a cavallo del suo Turbine, con una fezza di capelli più chiara e le frange ai pantaloni da cowboy, mentre rotea il suo lazo riparatore di torti.
Un personaggio uscito di scena molti anni fa con la definitiva scomparsa dell’eroe mite, il cui punto di forza non stava nella Colt o nel Winchester ma proprio nei connotati costitutivi della mitezza, da contrapporre alla durezza del mondo narrato.
Ma chi ha rubato Pecos Bill? Chi ha tolto questi tipi di personaggi presenti in letteratura, al cinema e nei fumetti, dall’immaginario del più lungo dopoguerra della storia? L’indagine ci dice soltanto quel che vuol sapere un lettore di gialli, ossia chi è il colpevole, ma il titolo del libro, e, ahimé, lo stesso titolo di quest’articolo sono allusivi a una questione più astratta, quella di un furto che ci ha privato, quasi del tutto di un personaggio scomparso, di un fantasma uscito definitivamente di scena: l’eroe mite.
Nel mondo narrato sono ormai prevalsi gli eroi con spiccati tratti aggressivi, eroi bellicosi che hanno rubato la scena agli eroi pacifici. E poi neanche questo cambio di quadro è stato considerato sufficiente ed è arrivato il tempo dei Supereroi, con enormi poteri da contrapporre agli altrettanti enormi poteri dei “cattivi”, da sconfiggere, anzi da annientare. Per la durezza del reale narrato serve schierare una durezza eroica in un gioco di azione-reazione che punta ad alzare i livelli di un contrasto senza fine.
Eppure, proprio per le caratteristiche della nostra epoca, l’auspicio di molti è nella costruzione – propugnata ne Il diritto mite - di quella che Zagrebelsky chiama una convivenza mite “costruita sul pluralismo e sulle interdipendenze e nemica di ogni ideale di sopraffazione.” Un piccolo aiuto in questa direzione è sempre venuto da quegli eroi di carta o di celluloide le cui gesta derivavano da una visione della vita e da un ethos all’altezza dei tempi e delle vicende vissute, vere o inventate che fossero.
Mitezza, leggerezza, ironia
Allora non ci resta che rimpiangerli?
Non sono pessimista fino a questo punto, perché credo che la figura dell’eroe mite non sia stata un’invenzione dettata dalla moda del momento per rispondere a una esigenza di mercato. Certo il Secolo breve con il suo carico di conflitti mondiali ne ha schierati un bel numero…procedo allora per simpatia:
in letteratura, il buon soldato Sc’véik (che con Hasek prima e con Brecht dopo, ha fatto entrambe le guerre mondiali)
nel cinema giganteggia Chaplin, eroe mite, ma solo a modo suo
nel fumetto, l’icona è il signor Bonaventura di quel grande personaggio che è stato Sergio Tofano.
Come vedete solo pochi nomi, particolarmente significativi, per tratteggiare i contorni di questo amico scomparso che ha lasciato in noi un ricordo perenne. Pochi e leggeri tratti.
Eh sì, perché la mitezza è stata sempre collegata alla leggerezza, non è possibile raffigurarla, anzi pensarla altrimenti.
Il lazo di Pecos Bill viene lanciato, volteggia in aria leggero, e nell’attimo che rimane sospeso in aria somiglia a un disegno zen.
La velocità del cavallo, l’eleganza del levarsi e ricadere della fune, il segno che volteggia nell’aria componevano, agli occhi dei lettori dei fumetti della generazione del dopoguerra, una qualità che non ritrovavamo nella realtà quotidiana, quella della leggerezza.
Soltanto alla fine del secolo sarebbero arrivate le Lezioni americane di Italo Calvino per aprirci gli occhi sulle cinque qualità fondamentali per la letteratura e quindi per l’esistenza.
La prima lezione, com’è noto, riguarda la leggerezza:
“Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite”.
Ecco perché non mi è sembrato arbitrario accostare, anzi collegare, la mitezza alla leggerezza e con la metafora del furto scrivere un libretto (il classico biglietto nella bottiglia) sulla preoccupante carenza di queste due qualità. Il furto è una privazione, la sottrazione di qualcosa che ci necessita, dopo il furto saremo per molto tempo senza…
Una condizione di disagio che innesta, per lo più, una controffensiva allarmata. Non rimane che ritrovare ciò che ci è stato tolto, l’indagine sui colpevoli è necessaria – ci potremmo perfino essere derubati da soli – ma non è sufficiente!
L’ultima breve incursione (brevità gran pregio, come si sa, specie in una pubblicità per me stesso) sulla realtà narrata dalla letteratura, dal cinema e dal fumetto e i miti eroi del Novecento riguarda, come preannunciato, Sc’vèik, Charlot e Bonaventura, e il fil rouge che li lega è l’ironia, sono tutti e tre personaggi comici.
Il personaggio creato da Hasek è di un’implacabile bonarietà e il suo sguardo sorridente ed ebete rimane per sempre fissato dalle illustrazioni di Josef Lada, che accompagnano il romanzo: gli occhi sono alternativamente due grandi puntini neri o due piccoli cerchietti. A che serve opporre uno sguardo, un atteggiamento mite e pacifico – simile a quello del nostro Bertoldo o come lo Shlemeil della grande tradizione ebraica – alla brutalità e all’ottusità della guerra?
Con movenze grottesche e vagamente anarchiche il buon soldato Sc’vèik smonta tutta la rete di relazioni nelle istituzioni (quella militare anzitutto) e nella società, come se maneggiasse instancabilmente una piccola e buffa chiave inglese.
Spesso il ridicolo è già contenuto in queste relazioni e per farlo affiorare e inceppare gli ingranaggi dell’ottusità è sufficiente contrapporre ad essi l’ingenuità e l’astuzia di un anti eroe, un bonario mercante di cani con l’assoluta mancanza del senso comune.
Man mano che le vicende procedono, questi tratti essenziali del personaggio diventano emblematici e rimangono fissati in quel volto tondeggiante (che per noi italiani sulle scene è stato quello, indimenticabile, di Tino Buazzelli) e in quello sguardo irreale.
Charlot e Charlie Chaplin
Il genio di Charlie Chaplin prende i toni accoratamente farseschi con il piccolo barbiere ebreo che, grazie alla sua somiglianza, riesce a sostituirsi al dittatore Hynkel – Hitler. Anche qui un eroe mite che deve misurarsi con un incubo reale e ne Il grande dittatore l’impasto di comico e di patetico proiettano sulla scena della Storia del Novecento un personaggio pacifico, determinato a contrastare l’orrore del nazismo.
Prima Charlot era stato un vagabondo in grado di opporsi ad una sorte avversa con gli sgambetti del proprio ingegno e del proprio corpo. L’eterna storia di Davide contro Golia, c’è la leggerezza e l’elasticità della fionda contro la pesantezza dell’armatura (spesso dei poliziotti!) ma c’è soprattutto lo sguardo ironico e irreale di due grandi occhi scuri che scrutano una realtà ostile e aggressiva.
Mite sì, Charlot, ma a modo suo, non rinuncia ai toni parodistici, a volte spietati, verso le favole convenzionali con cui viene edulcorata la vita (in Le luci della città le buone azioni faticano a trovare la loro ricompensa).
Un po’ di sadismo e di sana cattiveria sono necessarie alla sua comicità e alla sua percezione della vita (Eisenstein intitolava Charlie “The Kid” il suo saggio su Chaplin).
Il finale de Il pellegrino è la vittoria indiscussa del vagabondo, dell’eroe mite e generoso: Charlot è un galeotto evaso che si era spacciato per un missionario, ma che, comunque, aveva recuperato i fondi di una povera chiesetta, lo sceriffo è toccato dalla vicenda e non vuole essere da meno in fatto di generosità. Sul confine del Messico vuole permettergli di svignarsela, ma Charlot non coglie, nella sua ingenuità, la buona intenzione: lo sceriffo lo manda a cogliere oltre la linea di confine un fiore e si allontana, ma, dopo un po’ viene raggiunto dal galeotto con il fiore in mano. Un calcio nel sedere scioglie, una volta per tutte, l’intricato nodo tra legge e giustizia.
“E’ il finale più brillante di tutti i suoi film – scrive Eisenstein – Chaplin con la sua andatura saltellante, si allontana fuggendo dalla macchina da presa, nel cerchio luminoso del diaframma che si restringe.”
Bonaventura e l'eroismo gentile
Se nel cinema ci sono stati altri artisti che hanno saputo incarnare la figura dell’eroe mite – un discorso a parte meriterebbero sia James Stewart per La vita è meravigliosa per Harvey, sia, soprattutto, Jacques Tati con il personaggio di Monsieur Hulot – nell’arte minore del fumetto non abbondano i protagonisti con questa caratteristica, semmai la parte è affidata più spesso a comprimari (basta pensare a Pippo nelle storie di Topolino).
Già nella figura, nella scelta del costume, nella semplicità delle linee, Sergio Tofano, in arte Sto, ha creato, verso la fine della I Grande Guerra un’icona dell’eroe mite o, come è stato definito il signor Bonaventura, dell’eroe gentile.
Sarà bene ricordare i tratti di quest’icona minore con le parole di Sto: “un buffo uomo con un giubbetto rosso, un paio di calzoncioni bianchi e un bassotto giallo” e il suo nome, Bonaventura, è la conseguenza del fatto “che tutta la sua vita è un continuo succedersi di disgrazie fortunate o di fortune disgraziate.”
L’eleganza grafica, e il segno filiforme accompagnano l’evoluzione lineare della storia: l’inciampo iniziale provoca eventi imprevedibili e sciagurati che si risolvono, nel giro di poche sequenze con un effetto domino, in accidenti risolutivi, accompagnati da una lauta ricompensa. Prima un foglio bianco con un milione poi un miliardo, senza mai essere veramente soldi, ma solo un segno di meritata riconoscenza.
Il culto della leggerezza sarà riconosciuto anni più tardi da Italo Calvino che vorrà i disegni di Sto per il suo Marcovaldo.
Le storie ma anche il Teatro di Tofano, sono tutte improntate alla realizzazione di un’impresa impossibile: la dimostrazione che un gesto e una volontà temprata dalla mitezza di carattere e dalla gentilezza dei tratti possa non soltanto volgere in positivo un evento dannoso, ma anche sconfiggere la protervia dei potenti e il loro istinto di sopraffazione (come quello del crudele villani, Barbaroccia).
Una curiosità, spesso notata dagli ammiratori di Bonaventura come Antonio Faeti: la sua prima avventura, apparsa sul Corriere dei Piccoli, porta la stessa data del disastro di Caporetto, una coincidenza significativa per un eroe mite!
Chi è il colpevole?
Fatemi concludere con una risposta (al titolo dell’articolo) e che, temo, attiri un’altra domanda.
Infatti è arrivato il momento – siamo all’ultima pagina - di svelare con maggiore chiarezza il nome di chi ha rubato Pecos Bill: in realtà si tratta di più colpevoli in rispetto alla tradizione di alcune storie poliziesche (ricordate Assassinio sull’Orient Express di Agata Christie?).
Già siamo proprio tutti noi! Un indizio ve lo avevo fornito a metà di quest’articolo, quando ho detto che ci potremmo anche essere derubati da soli. Siamo tutti noi lettori e spettatori, uomini, donne e bambini che sembriamo aver relegato il fantasma dell’eroe mite nelle segrete del castello del Novecento, in compagnia di qualche altro fantasma con le ragnatele nelle lenzuola.
Il buffo eroe mite ha così conquistato un eccesso di leggerezza che certo lo mantiene in vita nella sua nuova condizione, ma noi ci siamo privati volontariamente di chi sapeva rovesciare una situazione drammatica nel suo opposto, ci siamo privati dell’implacabilità di uno sguardo ironico che coglie tutta la nostra inadeguatezza e passa oltre.
Chi avrebbe mai immaginato che tante opere, tanti personaggi sarebbero caduti nell’oblio?
Anzi sembrava che la loro vitale eccentricità avrebbe continuato a popolare ancora a lungo il nostro immaginario con nuovi volti e nuove storie…certo sarebbe anche potuto accadere, ma non ne siamo stati capaci, non siamo stati capaci di scriverli, di disegnarli, di desiderarli soprattutto.
Ed ecco la domanda conclusiva alla quale, stavolta, non so rispondere: sopravviverà l’eroe mite nel XXI Secolo? E, se sì, come cambierà?
Sopravviverà il nostro desiderio di rivedere quello sguardo ebete e astuto nello stesso tempo?
Lasciamoci così, in fondo il colpevole lo abbiamo trovato, forse lo conoscevamo fin dall’inizio e tanto potrebbe bastare…
Eppure, dopo tanti protagonisti eccessivi, in tutti i campi, che si richiamano alla pesantezza del mondo reale, un piccolo desiderio si è antropologicamente radicato in noi: quello di vedere, anche in questo secolo, un generoso sceriffo che con un calcio in culo spinge oltre confine un mite galeotto.
Che si ostina a tornare indietro con un fiore in mano.