Giuseppina De Rienzo, Vico del fico al Purgatorio

03-06-2008

La città doppia e l'indagine, di Donatella Trotta

C’è un sottile filo rosso che lega con coerenza il ventennale nomadismo creativo dell’autrice napoletana Giuseppina De Rienzo tra scrittura romanzesca, poesia e fotografia, nel labirinto dell’inconscio: è l’ostinata e mai banale indagine sull’identità non soltanto femminile, sul doppio, sull’impossibile possibilità di amare, sul tema del corpo (non necessariamente umano, ma anche esteso a territori campani e meridionali di forte magnetismo ambientale, abitati da un preciso genius loci), sull’ambiguità della verità e sul mistero del dialogo tra soprannaturale e una concreta, terrena laicità. Un’esplorazione dell’esistenza arrivata con il primo romanzo di atmosfere, simboli e suggestioni e adombrata, nella traiettoria narrativa della De Rienzo, soprattutto da figure di donne spesso irrisolte e fragili, eppure capaci di elaborare una graduale cognizione del dolore: in bilico tra i confini del reale conosciuto e un altrove (interiore ed esterno) denso di ombre.
Nel nuovo riuscito romanzo di Giuseppina De Rienzo, Vico del fico al Purgatorio, selezionato al Premio Strega 2008, questa ricerca letteraria si precisa andando oltre. Oltre l’ambientazione indistinta e velatamente biblica del romanzo d’esordio La pianura del circo, oltre la vecchia casa della memoria nell’Irpinia lesionata dal terremoto in Passo d’ombre, oltre l’amata isola di Procida co-protagonista delle inquietudini di Ida in La scirocca. Fino a penetrare, sfuggendo al morbo della retorica, nel cuore di Napoli (il centro antico dei Decumani e dei Vergini, contrapposti alla «solare» Chiaia) evocato anche dal titolo del libro: non a caso dedicato proprio alla città natìa dell’autrice.
L’avvio del meccanismo narrativo è uno dei tanti fatti di sangue che si consumano nei vicoli di Napoli, inferno dei viventi dove la zona del Purgatorio ad Arco si disvela, sin dalle prime pagine, come «un ardito miscuglio di vita e sonno eterno». Nell’incipit la protagonista ed io narrante Giulia Leone, quarantenne avvocato incaricata di difendere d’ufficio Maria Cuomo, donna accusata di aver ucciso il marito dopo anni di vessazioni, tradimenti (con la cognata Rosaria) e violenze, entra in contatto con un personaggio-chiave del romanzo: Saverio Derosa detto Eva, zio della presunta assassina «Mariuccia», femminiello dei Tribunali che la introdurrà progressivamente in un microcosmo popolare losco e a tratti quasi primitivo, antitetico all’ambiente borghese dal quale l’avvocato proviene. Ma anche Giulia è tuttavia vittima, a sua volta, di legami affettivi e familiari tanto fallimentari quanto violenti. E sarà proprio il caso assegnatole a farle fare i conti non soltanto con il ventre oscuro di una città malata e disperata, ma anche con il proprio personale passato, incarnato soprattutto dalla madre rancorosa e «asettica, inutilmente bella», morta di cancro poco tempo prima; e da Nino, l’uomo sposato ed eterno Peter Pan erotomane con cui Giulia ha una insoddisfacente relazione da quindici anni.
A queste vicende parallele si intrecciano l’andamento e l’esito del processo, riportato dalla De Rienzo con il linguaggio burocratico delle aule del tribunale, che conferisce all’andamento della storia un effetto tanto oggettivo quanto straniante: ed è un suo grande merito aver affrontato questo tema, e la sua ambientazione (a rischio luoghi comuni), con una scrittura sapientemente ibridata, modulata su un mistlinguismo sorvegliato e sobrio anche negli inserti dialettali che, fino al colpo di scena finale, conferma il talento e la sensibilità vibratile di un’autrice dal timbro personalissimo, alieno dalle mode imperanti.