Due rilevanti pubblicazioni della nota poetessa e attiva operatrice culturale catanzarese ritornata a vivere nella sua città natale dopo un lungo periodo fiorentino. Il sottotitolo del primo libro recita “romanzo in poesia”, ed è, in effetti, un vero e proprio racconto poematico, strutturato in strofe libere che formano complessivamente un insieme di grande fascinazione tutta mediterranea (Giuseppe Conte ha felicemente rilevato che Solstizio d’estate è “tutto grondante di luce di mare, e ustionato al gran fuoco di metamorfosi che contiene”). La Verbaro si rituffa nel proprio passato per scovare le venature sacre e segrete, palpitanti e plurali, l’arcana armonia che lega contrade, cose e persone del passato, non, beninteso, per spirito nostalgico ma con l’accorata consapevolezza che esse sanno parlarle al presente; questo Presente che – via Luzi (con il quale la Verbaro ha dialogato per decenni) – “ ci trasforma, consuma e ci conforta”. Quest’ultime sono proprio le parole che il grande poeta scrisse come dedica autografa a Giusi regalandole il suo ultimo volume di versi (ultimo, a quel tempo, prima che uscisse il postumo Lasciami, non trattenermi). Mi piace citare questo passo a mio avviso uno degli apici più vibranti di questo romanzo poematico, scritto come totale disposizione alla purezza del canto pieno: “Tutto ritorna. / Aperta ad ogni voce, anch’io ritorno / - nella sacralità di questa notte / che battezza l’estate e ne incide / l’inizio della fine - / al senso più segreto delle cose / nell’unità perfetta tra la natura / e il tempo. Nell’armonia che lega / al ciclo degli eventi / le scansioni più perse. Più lontane: // i sogni inconsapevoli che, pure, / dicono di altra vita, di altre vite. / Le vite perse, in apparenza prive / di ogni traccia, / ma che a tratti ritornano / con tocchi impercettibili. / Un fiorire di segni e indizi ambigui / che chiamano al ricordo /di tappe ancora oscure. // Tutto un baluginare / di lumi nell’inconscio / che si aprono a scenari e piste nuove / nel mistero del tempo. / Nella grandiosità delle sue trame”. Ottima e penetrante la Prefazione di Donato Valli. Il secondo libro è una raffinata plaquette nella quale la Verbaro tratta da par suo, con lirico afflato, la tematica dell’angelogia, tematica tanto cara a vari poeti del nostro Novecento, da Rebora a Ungaretti, da Luzi a Pasolini, fino a Turoldo e Loi (tanto per citare i primi nomi che mi vengono in mente). I quali “esistono. Ci vivono d’attorno. / Ci sorreggono, a volte. Lasciano scie di luce: / sono lucciole o lampi o bagliori improvvisi / che si accendono provvidi nel buio” (cito il bellissimo incipit di questo prezioso libretto, la cui lettura mi ha profondamente coinvolto e commosso; forse e senza forse, insieme con Solstizio d’estate, l’acme di tutto l’opus poetico della Verbaro. Né va trascurato l’apporto di Vanni Rinaldi, grande pittore che andrebbe maggiormente valutato, che, tra l’altro, ebbi molti anni fa la ventura di conoscere e frequentare di persona, poi divenuto – a sua insaputa – uno dei personaggi (!) più sottilmente rappresentativi del mio romanzo Controfigura).
Giusi Verbaro, Solstizio d'estate
Due rilevanti pubblicazioni della nota poetessa e attiva operatrice culturale catanzarese ritornata a vivere nella sua città natale dopo un lungo periodo fiorentino. Il sottotitolo del primo libro recita “romanzo in poesia”, ed è, in effetti, un vero e proprio racconto poematico, strutturato in strofe libere che formano complessivamente un insieme di grande fascinazione tutta mediterranea (Giuseppe Conte ha felicemente rilevato che Solstizio d’estate è “tutto grondante di luce di mare, e ustionato al gran fuoco di metamorfosi che contiene”). La Verbaro si rituffa nel proprio passato per scovare le venature sacre e segrete, palpitanti e plurali, l’arcana armonia che lega contrade, cose e persone del passato, non, beninteso, per spirito nostalgico ma con l’accorata consapevolezza che esse sanno parlarle al presente; questo Presente che – via Luzi (con il quale la Verbaro ha dialogato per decenni) – “ ci trasforma, consuma e ci conforta”. Quest’ultime sono proprio le parole che il grande poeta scrisse come dedica autografa a Giusi regalandole il suo ultimo volume di versi (ultimo, a quel tempo, prima che uscisse il postumo Lasciami, non trattenermi). Mi piace citare questo passo a mio avviso uno degli apici più vibranti di questo romanzo poematico, scritto come totale disposizione alla purezza del canto pieno: “Tutto ritorna. / Aperta ad ogni voce, anch’io ritorno / - nella sacralità di questa notte / che battezza l’estate e ne incide / l’inizio della fine - / al senso più segreto delle cose / nell’unità perfetta tra la natura / e il tempo. Nell’armonia che lega / al ciclo degli eventi / le scansioni più perse. Più lontane: // i sogni inconsapevoli che, pure, / dicono di altra vita, di altre vite. / Le vite perse, in apparenza prive / di ogni traccia, / ma che a tratti ritornano / con tocchi impercettibili. / Un fiorire di segni e indizi ambigui / che chiamano al ricordo /di tappe ancora oscure. // Tutto un baluginare / di lumi nell’inconscio / che si aprono a scenari e piste nuove / nel mistero del tempo. / Nella grandiosità delle sue trame”. Ottima e penetrante la Prefazione di Donato Valli. Il secondo libro è una raffinata plaquette nella quale la Verbaro tratta da par suo, con lirico afflato, la tematica dell’angelogia, tematica tanto cara a vari poeti del nostro Novecento, da Rebora a Ungaretti, da Luzi a Pasolini, fino a Turoldo e Loi (tanto per citare i primi nomi che mi vengono in mente). I quali “esistono. Ci vivono d’attorno. / Ci sorreggono, a volte. Lasciano scie di luce: / sono lucciole o lampi o bagliori improvvisi / che si accendono provvidi nel buio” (cito il bellissimo incipit di questo prezioso libretto, la cui lettura mi ha profondamente coinvolto e commosso; forse e senza forse, insieme con Solstizio d’estate, l’acme di tutto l’opus poetico della Verbaro. Né va trascurato l’apporto di Vanni Rinaldi, grande pittore che andrebbe maggiormente valutato, che, tra l’altro, ebbi molti anni fa la ventura di conoscere e frequentare di persona, poi divenuto – a sua insaputa – uno dei personaggi (!) più sottilmente rappresentativi del mio romanzo Controfigura).