Herman Melville, Le Encantadas

08-01-2011

L’isola incantata di Melville, di Francesco Longo

Le isole “più isole” di tutte sono quelle di cui non si può dare per certa l’esistenza. I primi esploratori spagnoli che arrivarono al largo delle Galapagos, per esempio, non erano sicuri di avere davanti isole, anche se complici di quell’ambiguità dovevano essere certamente i deboli strumenti ottici dell’epoca. In ogni modo, le chiamarono Islas Encantadas, indovinando così la loro natura più intima, che è quella del miraggio.
Ma una visione ancora più penetrante dell’arcipelago vulcanico del Pacifico è contenuta in uno spaventoso libro di Herman Melville che oggi l’editore Manni ripropone con una nuova traduzione. Le Encantadas o Isole Incantate (Manni, pp. 150, euro 14) è certamente il più straordinario reportage sulle Galapagos che sia mai stato scritto. Costruito in forma di frammenti, il tono del libro ha una superficie cangiante in cui ora si vede l’aspetto del documentario naturalistico, ora il più classico racconto di mare, ora l’affresco allegorico sulla parabola dell’esistenza umana, e ora un vertiginoso viaggio nelle viscere della stessa creazione letteraria. Bisogna dire subito infatti che alcune delle indicazioni importantissime contenute nella corposa introduzione di Cristiano Spila (che è anche il traduttore di questa nuova versione), riguardano proprio i punti in cui l’oggetto paesaggistico e la condizione del viaggiatore si intrecciano con questioni che riguardano direttamente la letteratura. La prima intuizione riguarda la coincidenza tra lo sguardo del narratore, che «è sempre quello del marinaio di vedetta», e il fatto che la scrittura sia in sé un modo di «vedere più lontano, vedere oltre». Il secondo spunto è contenuto in questa frase: «La proprietà condivisa dalla natura e dalla scrittura è quella della consumazione e dell’oblio». La lunga premessa al volume, un saggio di critica letteraria molto intenso, offre al lettore sessanta pagine di piste e chiavi che permettono di aggirarsi bene in questo capolavoro di Melville poco conosciuto, labirintico, e di una forza impressionante.
D’altronde: cosa poteva scrivere uno che aveva già pubblicato Moby Dick? L’allucinato diario di bordo delle Encantadas è la risposta più precisa a questa domanda. Melville non poteva che portare fino alle estreme conseguenze il suo discorso metaforico che riguarda il mare, Dio e l’essere umano. Il sacro, la letteratura e la Natura sono dimensioni fuse in questo libro misterioso, crudo e biblico. La presentazione complessiva di quel disastro di arcipelago che descrive Melville suona così: «Prendete venticinque mucchi di cenere, gettati qua e là su un terreno ai margini della città, immaginate che alcuni di questi si innalzino come montagne, e che il terreno sia il mare, e avrete un’idea adeguata dell’aspetto generale delle Encantadaas, o Isole Incantate. Un gruppo di vulcani spenti più che isole, molto simile a quello che potrebbe essere il mondo dopo una conflagrazione punitiva». Per Melville queste isole vivono sotto il segno di una maledizione che riguarda il clima («ignorano l’autunno come la primavera»); il mare che le circonda («per la forza delle correnti, i rimorchiatori riescono a malapena a impedire che la nave vada a schiantarsi sulle scogliere»; e il loro terreno («un’altra caratteristica di queste isole è la loro assoluta inabilità»).
In queste pagine si incontrano chiaramente personaggi altrettanto tetri e desolanti: balenieri, capitani disumani, fuggiaschi, eremiti, nativi selvaggi.
Quel capolavoro letterario che è Moby Dick fu un insuccesso. Melville, che prima di quel geniale incubo marino aveva pubblicato i romanzi sui mari del sud (come Typee o Omoo) voltò le spalle al racconto narrativo enciclopedico, sperimentando la strada della scrittura frammentata, non lineare. Nulla si adattava di più a questa nuova idea che il latrato di isole altrettanto tortuose, secche, frastagliate. Scrive Spila: «Il taccuino di viaggio si trasforma in un diario della delusione e della disillusione umana. La sola dimensione che conta è l’illusione di un viaggio, (…) anticamera dell’inferno».