E ora punto al segreto di Majorana, di Elena Lombardo
Dietro la storia di fra Giacomo da Poirino, il francescano che diede l´assoluzione in punto di morte allo scomunicato Cavour, c´è l´eterno cruccio della Chiesa: il rapporto fra la coscienza e l´autorità. Qualcosa di molto più concreto del libero arbitrio di cui si lamenta il Grande Inquisitore di Dostoevskij, ma esattamente quel chiodo antico che si ripresenta puntualmente tutte le volte che un buon cristiano sente di fare bene, di agire sul singolo caso seppur contro l´istituzione.
È la questione morale che Lorenzo Greco, siciliano originario di Mazara del Vallo e toscano di adozione, affronta nel suo libro Il confessore di Cavour, edito da Manni, selezionato nella rosa dei dodici concorrenti al prossimo Premio Strega. La candidatura verrà ufficializzata oggi a Benevento: il romanzo di Greco sarà presentato da Giovanni Russo e da Antonio Tabucchi. Quello di Greco è il secondo nome siciliano dello "Strega", assieme a quello della catanese Viola Di Grado.
«Mi ha affascinato molto la figura di questo piccolo frate che prende da solo una decisione importante e che non si intimidisce né davanti al Papa né davanti all´Inquisizione. Nonostante tutto non scenderà mai a compressi. E, al di là dell´evento storico, mi interessava raccontare il corto circuito ricorrente della Chiesa. Ancora oggi, la coscienza e l´autorità si scontrano in tematiche quali l´aborto, le staminali, l´eutanasia» dice il professore commentando il suo libro.
Lorenzo Greco è professore di Sociologia della comunicazione all´Accademia Navale di Livorno e all´Università di Pisa. Con i militari si ritrova a riflettere quotidianamente sullo stesso problema etico: cosa fare di fronte l´ordine che la coscienza individuale ritiene ingiusto? «I militari sono arrivati alla conclusione che all´ordine ingiusto non si obbedisce, ma è chiaro che la misura dell´ingiusto resta strettamente legata alla singola coscienza».
Lorenzo Greco ha lasciato Mazara a dieci anni, a seguito del padre che era proprio un militare, per carriera trasferito a Livorno. Oggi parla con marcato accento toscano, ma alla Sicilia è ancora molto legato, non solo perché la sua famiglia è rientrata a Mazara, ma anche perché quando pensa al "ritorno" lo pensa lì, dove infatti ha comprato casa. La Sicilia per lui non è solo famiglia, ma anche amicizie e un certo modo aperto di vivere i sentimenti: «Dico solo che da quando si è saputo della selezione del mio libro per lo Strega ho ricevuto una marea di telefonate. Vengono tutte dalla Sicilia e nessuna dalla Toscana», dice ridendo.
Professor Greco quale eredità siciliana riconosce alla sua scrittura?
«Senza andare troppo lontano, credo proprio che la profondità della coscienza il siciliano la soffra molto. Mi vengono in mente piccole figure che per dignità non si piegano. Ma per il siciliano è difficile essere veramente libero. Ho sentito la voce grossa di certi venditori al mercato che mettono in difficoltà la povera gente e che sono pronti a mostrarsi servili con il più potente. Ho negli occhi mio nonno, proprietario terriero, e il suo rapporto con il contadino. Un rapporto assolutamente sbilanciato. Il siciliano sta zitto e tace. Il siciliano ha elaborato il suo rapporto con il potere con la pratica del latifondo, mentre, per esempio, in Toscana, dove si è praticata la mezzadria, c´è un approccio diverso al potere. Forse più dinamico. Il siciliano lo elabora e lo rimugina il potere. E forse è da qui che a me viene l´attrazione per questo tema».
Nel suo libro viene fuori il lato umano del conte di Cavour. In Sicilia l´eroe, e insieme l´antieroe, dell´Unità è invece Garibaldi. Due personalità irrimediabilmente agli antipodi?
«Sì, una differenza incolmabile. Nel mio libro faccio appena un accenno all´episodio in cui Garibaldi nasconde la mano sotto il poncho pur di non stringerla a Cavour nel giorno della proclamazione del Regno. Riguardo la Sicilia, penso che dall´Unità sia stata tradita, come altre volte le è capitato quando ha tentato di liberarsi dall´invasore».
Ha mai scritto di Sicilia?
«Ho scritto un Canzoniere per Mazara, una raccolta di poesie in cui in effetti do sfogo al mio rapporto con la città. Per me è sempre la meta del ritorno. Quando mi capitava per lavoro di trovarmi lunghi periodi in America, pensavo alla Sicilia. Forse perché è la terra madre, materialmente la terra di mia madre. Ho un atteggiamento nostalgico quando sono a Livorno nei confronti della Sicilia. Con il mio amico Vincenzo Consolo mi capitava spesso di passeggiare elencando tutte le caratteristiche siciliane a cui eravamo legati. Lui mi raccontava che nei primi tempi in cui si trovava a Milano, andava all´aeroporto a vedere partire gli aerei che erano diretti a Palermo. Io non arrivo a questi livelli, ma sento molto il richiamo della Sicilia».
Cosa le manca principalmente?
«È il mio luogo di raccoglimento. Luoghi che sono scelte dell´anima perché sono molto intensi. Per esempio, Capo Feto. Questo luogo, confine d´Europa, perché è il luogo più a sud di Trapani e guarda l´Africa, è un posto solitario e selvaggio dove mi piace raccogliermi nei miei pensieri».
Nel suo prossimo libro ci sarà la Sicilia?
«Vorrei tanto scrivere della leggenda dell´Uomo cane, quel barbone che dal 1940 al 1973 si aggirava per Mazara, aiutava gli studenti di ingegneria a scrivere le tesi, i liceali a risolvere velocemente problemi di matematica e fisica. L´uomo che molti sono certi di identificare con Ettore Majorana. Mi sono sempre chiesto: "Perché Ettore Majorana avrebbe dovuto vivere come un barbone a Mazara?". E mi sono dato questa risposta: "Perché sì. Perché un genio avrebbe fatto questa scelta"».