Un lungo corridoio, di Giacomo Cerrai
Ho letto più volte questo libro. L’ho letto e riletto perché mi piace intensamente, e pazienza se questo ha poco a che fare con la critica, militante o estemporanea che sia. Dico subito, a mia parziale giustificazione, che questo è uno dei libri di poesia più maturi che mi sia capitato di leggere negli ultimi tempi, un libro sentito, compatto, concentrato e concreto. E anche, e non è poco, assai comunicativo nei confronti del lettore, pieno di una confidente disposizione verso di esso.
Diario inverso di Lucianna Argentino (Manni Editore) è un libro che assomiglia a un lungo corridoio, che ci è dato percorrere con la curiosità un pò morbosa di chi ha trovato la porta aperta, e si addentra con passo incerto, gettando lo sguardo nelle stanze. Si entra nell’intimo di una persona, di una donna e del suo percorso poetico, che parte “da un evento biografico per fare un viaggio a ritroso cercando le radici da cui quell’evento è scaturito”. Così infatti mi dice Lucianna in una sua lettera.
Forse dovremmo partire da questo dato o comunque dalla aperta dichiarazione che si tratta appunto di un diario, anzi di un diario di bordo, ovvero della registrazione dei fatti e delle azioni, dei sentimenti e delle scelte che hanno condotto alla fine del viaggio. Ma Lucianna è una poetessa, cioè un’artista che cerca con il linguaggio il linguaggio segreto delle cose, a lei non interessa la storia, la storia anzi, come in questo caso, è un oggetto da rovesciare poeticamente, come un enorme hysteron proteron o un’anàstrofe, come, in questo caso appunto, un “diario inverso”. Lucianna lo dice subito, fin dall’inizio (la fine?) del libro: “Compiuto è l’anno, invertita la rotta / ed è risacca che spagina il tempo / è cura di un dolore contento / è linimento tardivo di un ritroso navigare / è scoramento dell’onda che torna in alto mare” (pag. 10, corsivi miei). Al di là della semplice efficacia di questi versi, fatti di aria e acqua, di topoi e icone, di assonanze e rime che precipitano nei doppi ottonari, qui c’è già non solo la dichiarazione di intenti del poeta (da qui inizia il viaggio a ritroso), ma anche il modello di una condensazione del pensiero in brevi componimenti, stilisticamente definiti, che caratterizza questo volumetto di poco più di quaranta brani.
Prima di questa partenza c’è la drammatica (e molto bella) epigrafe del libro, la constatazione del compimento del silenzio (“Così cedette e abbassò la voce tanto che tacque”, pag. 9), perché è il silenzio (cioè l’incapacità o la negazione del comunicare) l’abîme, il fondo del pozzo da cui si guarda a ritroso la superficie. Da notare a margine che questo primo testo, a differenza di tutti gli altri, è scritto in una straniante terza persona, a segnalare proprio un rassegnato distacco, l’osservazione ormai esterna di resti spiaggiati dalla risacca della vita. E tuttavia anche qui, per il paradosso magico della poesia, è con la parola che si tenta di comunicare l’incomunicabile, come correttamente annota Marco Guzzi nella prefazione. Ma cosa è avvenuto, e perchè? Come tutte le donne, così meravigliosamente diverse da noi, di fronte allo spengersi di una relazione Lucianna non si accontenta di guardarsi alle spalle, non può non chiedersi: come ci siamo ritrovati qui? Lucianna cerca di darsi (darci) una risposta per mezzo di molti registri, per indizi che lei stessa reperisce e sparge per noi nel libro, fin da quando, alla fine (l’inizio?) del libro stesso paga il suo tributo “al dio liquefatto nell’inchiostro”, e comincia a scrivere. Scrivere significa, in poesia, non solo dare una forma alle cose, ma farlo attraverso un’opera di selezione, di ricerca e scarto, di scelta e ripensamenti, all’interno di un lessico che appartiene al poeta. Si tratta di una raccolta, di un’elezione e, in un certo senso, di una epifania di sè. Si tratta anche, in molti sensi, di una “fede” nella poesia stessa. “S’avvia in briciole il cercarmi dentro una poesia / in redenzione di tutte le offese del mondo”, dice Argentino (pag. 50), la redenzione di una “vita spezzettata” nel pieno della coscienza del precipitare delle cose. Le cose accadono: ci si ritrova in “vite senza un centro / o vite in cui quel centro s’è perso”, dove “le parole cercano un rifugio / nell’acropoli del significato” e si suppone che questo centro, questo significato che è venuto a mancare sia il progetto, la comunione, il futuro, la speranza (ma anche la simulazione di felicità) su cui si investe ogni volta che si parla d’amore. “Le cose non capitano, accadono…” precisa Lucianna in una della più belle poesie del libro: non c’è un fato, in fondo, ci sono lotte e sconfitte che sono ascrivibili a ciascuno di noi, ci sono fallimenti di cui ciascuno di noi può essere ritenuto responsabile. In questa vicenda il tempo, la “strenua avanzata degli anni”, le stagioni scandiscono l’inesorabile biologia del rapporto, il succedersi dei segnali di una entropia irreversibile (“le cose a volte implodono, senza implorare altro”) sulla maschera dell’altro: “lungo il paesaggio in corsa / -oltre il parabrezza- / lui pigiava il piede sull’indifferenza / accelerava il disincanto / -io, dentro, custodivo un riparo”; e altrove: “smise d’essermi amante il suo sguardo / quando la lucentezza caduca dell’addio / sorprese i cortili e le voci che ne fuggivano…”; e anche “nel suo sguardo sconosciuto penava / l’aut aut imposto al mio ventre in festa”; “quel suo sguardo per cui dell’insieme / sono il particolare che sfugge” e potremmo continuare, ma quello che importa è che progressivamente diventa “impossibile, tra noi, una nuova lingua”. Anche qui come in altre voci poetiche, e mi ripeto, la poesia diventa una cognizione/ricognizione del dolore, sia esso una cristiana espiazione, un dolore che prepara al bene, o stoicamente misura di pazienza o speranza o ricordo. E se Lucianna si domanda “Chi può dirmi chi sono / se lui non mi è più specchio”, in questi frangenti tuttavia è la nascita di un figlio, registrata in una bella poesia, “Ecco lo splendore del primo giorno”, che forse restituisce una identità apparentemente perduta e segnala insieme una supremazia e un destino della donna, anche rispetto a chi si allontana: “io concepita madre / lui da un’ottusa coerenza respinto / nella mia innocenza”.
Certo questo libro offrirebbe molti altri motivi di riflessione a qualsiasi lettore appena ben “temperato”: la grande pulizia della lingua che raramente indulge alla ricercatezza, pur con l’inserimento discreto e prezioso di parole rare o nuove (luce nepente, presente sativo, sentiero dumoso ecc.); il grande controllo sulla materia poetica che si esplica sia nella esauriente brevità dei testi sia, senza contraddizione, nella lunghezza di respiro dei versi, ma anche nell’abile uso di strumenti come il correlativo oggettivo (v. ad es. “Guaisce il vento braccato dalla geometria…”, pag. 33) o figure retoriche come la similitudine (“sono in fuga le mani - / due lepri bianche braccate dalla loro stessa paura”). Ma al di là di tutto, quello che conta in questo libro è l’onestà del dettato, il cuore che Lucianna ci mette. In altre parole, tutto ciò che, come lei stessa ha avuto modo di dirmi, rende necessaria la poesia.