Un viaggio a ritroso, di Enrico Pietrangeli
Diario inverso è un viaggio a ritroso, nei labirinti dell’animo, per assecondare quei flussi che portano a metabolizzare una stagione del sentimento facendo ricorso al verso. Lucianna Argentino ha tutta la lucidità e la maturità poetica per conseguire i migliori risultati con omogeneità e stile, lascia ampio respiro tanto alla fruibilità dell’opera quanto alla cosmografia interiore e, soprattutto, non perde mai di vista acume e spessore. Solenne incalza il tempo, “compiuto è l’anno, invertita la rotta/ed è risacca che spagina il tempo”, salvifica urgenza di esserci e altrove, varcando il frammentario caos sedimentato, lo smarrimento. L’ “altrove dove le cose si spogliano/di vaghezza”, dove l’ “abbraccio senza il calore delle braccia” altrui torna di riferimento. “Luce nepente” e poche altre, misurate ricercatezze linguistiche coronano un essenziale, elegante e suadente versificare per un “presente puro”, “mondato dell’attesa”, ma anche “sativo”. Ricorrono elementi religiosi, a partire da uno “sguardo cireneo”, “strenua difesa” sull’altro “sguardo”, quello “manicheo”. Anamnesi che, talvolta, non sono prive d’invettive per l’ “ottuso sdegno” che “accelerava il disincanto” di una “luce giunta da una stella morta”, luce tramontata e che svela “il diniego, la resa”. Al di là di ogni più che naturale e congeniale negazione, affiorano, tuttavia, “due lepri bianche braccate dalla loro stessa paura”, le mani. “Coraggio perso è il suo guardarmi”. “Chi può dirmi chi sono/se lui non mi è più specchio?” sono emblematiche rivelazioni della dicotomia amorosa, perdita d’identità e orientamento. Mimesi nella stasi domenicale, i “gerani/stanno pazienti contro il luccichio dei vetri”. Resta un “lento ritirarsi delle cose/alla strenua avanzata degli anni” tra “mulinelli d’aria e foglie secche” per un “canto rinnegato” (“radice breve è quanto ci ha uniti”), ma anche la rivisitazione di una “chiaroveggenza possibile solo/nell’infanzia”, dove imbattersi in un poetico “sentiero dumoso”, chiave di una vita poi “adulta”. “L’aut-aut imposto al mio ventre in festa” richiama il sempre più ravvivato dibattito intorno all’aborto ma qui, come altrove, è in ogni caso il femminile, la madre terra, a discernere del seme. Evocativa e visionaria del reale quando “guaisce il vento braccato dalla geometria/delle strade”, trasalendo per una blasfema panchina di periferia, l’autrice raccoglie “sfatta l’emozione mietuta fuori stagione”, percorre “binari in disuso dell’impallidito destino”. Si celebra il “commiato dell’anima” “dall’arco teso dell’avvenimento”, e non solo lo si accetta. Del resto, il rito funebre, è insito nella tradizione, congedo per altra esistenza nel patrimonio stratificatosi. “Rammendavo la distanza” è il tentativo ostinato e comunque mai vano opposto all’irreversibile, cosciente riflesso che “triste è pure non avere nulla da rimpiangere” malgrado non restino che “fisionomie/di cartone rosicchiato dai topi” a testimonianza dell’evento. Considerazioni di apertura al nuovo, sebbene sottaciute, trapelano in chiusura perché “manca la poesia/nel giorno sceso in cenere” ed è ormai forzata “la veglia stanca e irragionevole/al dio liquefatto nell’inchiostro”. Nel complessivo quotidiano incedere di una volgarità strisciante, qui la voce della scrittura ancora distingue, media ed elabora l’imponderabile umano nel divenire della sua esperienza, discende nelle radici più profonde, ricerca una dimensione per quanto ci accomuna. Del resto, il sondare oltre nel “travaglio del tempo”, è condizione sincera ed irrinunciabile per i poeti nella contemporanea “sperimentazione di stati interiori”, indagine indispensabile e qualificante la poetica in accordo all’introduzione di Marco Guzzi intitolata “vedere altro”.