Macondo, di Andrea Mulas
Una storia che non ti aspetti, di quelle che si capiscono solo all’ultima pagina. O almeno si crede. Come scrive il regista Marco Bechis nella Prefazione, «un libro letto d’un fiato. Un’indagine». Alla narrazione vera e propria si alternano documenti, lettere, email. Di inventato c’è davvero poco. Gli scrittori hanno lavorato per anni sul reperimento di documenti concernenti la dittatura argentina. Ma perché questo titolo? Il 25 giugno 1978 tutta l’Argentina è davanti alla tv per la finale mondiale (vergogna!) di Buenos Aires tra i biancocelesti e l’Olanda. O meglio, quasi tutta. Qualcuno, rinchiuso all’Escuela Superior de Mecanica de la Armada della capitale argentina, o nei centri di riabilitazione sparsi per il Paese, quella partita non può o non vuole vederla. Gira attorno a quella datasimbolo, e non solo per il calcio, la trama di 1978. «Un Mondiale giocato da 25 milioni di argentini», diceva la propaganda di Videla e dei suoi colonnelli, mentre decine di migliaia di persone sparivano dalla vita, sottoposte nel migliore dei casi a “programmi di rieducazione” che avrebbero annientato il loro passato e cancellato il loro futuro. 1978 è la storia di chi cerca di ridare un senso a se stesso, di ritrovare le proprie radici. Come uno dei bambini nati quel 25 giugno 1978: lo chiamarono Mario in onore di Kempes, ma mamma e papà quella partita non riuscirono a vederla.