Nicola Papa, Dolce cattività

16-02-2006

Un futuro da vivere al Sud la scommessa dei giovani, di Rosanna Metrangolo


C’è Montale e c’è l’addio ai monti di Manzoni, archetipo di tutti gli addii, quei tagli scelti ma per niente voluti, che ti portano via, ma non ti allontanano. C’è la letteratura anglosassone, c’è la formazione classica dell’autore che intitola i 12 capitoli con la traduzione di quello che nella grammatica latina era l’ablativo del complemento di argomento: Di te e di quel che ti raccontò il barbiere, Di te che prendi una decisione e dei sogni che fai. C’è tutto questo in Dolce cattività, opera prima di Nicola Papa, trentasettenne salentino, robusti studi di economia, master alla Bocconi, importanti esperienze lavorative tra New York, Parigi, Londra, passione per la musica e per i libri.
«Perché la materia e lo spirito vanno a braccetto e non si separano mai: e non puoi educare lo spirito a pancia vuota, ma nemmeno sfrecciare in Ferrari e respirare diossina, né rilassarti in Jacuzzi senza mai aver letto Manzoni in vita tua». Scrive così l’autore nel secondo dei due capitoli di taglio economico, dove le regole ferree della politica economica e dell’organizzazione aziendale entrano nelle vicende raccontate come substrato di conoscenza e contestualità storica. Spunti lirici e stile asciutto, disadorno.
È la parte più riuscita, quella che fa di questo racconto con forti spunti autobiografici, un racconto alla rovescia. La letteratura diventa pretesto per narrare le ragioni di una terra atavicamente povera eppure ricca di talenti e risorse inespresse, da cui si scappa perché non c’è altro da fare e nel troller (epigono della gloriosa valigia di cartone) c’è la malinconia di chi parte, ci sono i sogni di chi vuole costruirsi un futuro per tornare. Il protagonista tenta di farlo, ma alla fine, vinto dalla impossibilità di volare in casa propria, finisce per scegliere le brume londinesi. Ma sotto la pioggia canta O’ sole mio.
È un libro denuncia. Di un fenomeno che è acclarato nei sondaggi dell’Istat, ma su cui si riflette poco: negli ultimi dieci anni l’entità dei flussi migratori è tornata ad essere quella del dopoguerra. Allora emigrava la povera gente senza arte né parte, oggi lo fanno i ragazzi tra i 20 e i 35 anni con diploma e laurea. «Se sei in gamba, ma rimbalzi contro muri di gomma e di cemento armato; se intorno a te c’è –e resiste– una fitta rete di clientele, nepotismo, sotterfugi, abusi, ma tu con quella rete non hai nessuna intenzione di pescare, beh, allora prendi e te ne vai altrove, in luoghi più civili». E «la terra che lasci diventa sempre più povera, quella di destinazione sempre più ricca». «È necessario rompere il circolo della povertà», scrive Nicola Papa, «perché ad esso si associano situazioni di degrado e di dolore».
C’è la malinconia di chi emigra lungo le 124 pagine di un libro che è un atto d’amore per questa terra. Che ti imprigiona con la sua bellezza, i suoi colori, i suoi tiepidi umori, una cattività dolce dalla quale non si vorrebbe scappare. Non lo vuole il protagonista che pure parte per sempre, ma non rinuncia ai sogni. Li annota sui diari, sono gli stessi di ogni emigrante di tutti i tempi.
Dolce cattività è, dunque, il racconto di una condizione, del disagio di chi c’è ma non trova le condizioni per dare il meglio di sé, e il disagio di chi non c’è e, altrove, non trova le condizioni per essere felice. Da qui la rabbia. E le lacrime del protagonista che se ne va da questa terra «buco nero della potenzialità, calamita dei mediocri…, dove, ancora, i renzi portano capponi agli azzeccacarbugli…».
Non c’è rassegnazione. Perché non vuole rassegnarsi l’autore. È impossibile cambiare? A trent’anni uno ci prova. Magari con una denuncia sotto forma di libro.