Un anno denso e discusso, di Tiziana Magone
Un anno denso e discusso della storia politica italiana, il 1977, visto dalla particolare angolazione di un segmento di movimento, minoritario per vocazione, “particolarmente ozioso”, inoperoso, demente, irridente, noto alle cronache dell’epoca come gli “indiani metropolitani”. La loro è una storia minore, “con la s mollusco (…) anonima, corale, antiregale” a cui l’autore tenta di dare oggi una forma intelligibile partendo da un materiale eterogeneo e frammentario (volantini, lettere, avvisi, manoscritti, scarabocchi, disegni, fanzine…) sopravvissuto in uno scatolone. La sua voce narrante è il tessuto connettivo di quei brandelli, ma il linguaggio, creativo e irriverente, carico di citazioni e a tratti sconnesso, è mimetico con lo stile di allora rivendicando, anche così, la continuità con quel passato, rifiutando cioè “l’elaborazione luttuosa della parte più curiosa e briosa di sé”, che la maturità, con annessi saggezza e rimbambimento, per i più porta con sé. Oltre a produrre un’esuberante elaborazione teorica fatta di pochi precetti –“esula dalla regula, qualunque essa sia, semper”– e molti rifiuti, che spaziano dai deodoranti al lavoro regolato, garantito e sindacalizzato, al Pci che predica austerità, gli indiani metropolitani agiscono. Stanno nel movimento in modo defilato, fuori dalle strutture; contestano Luciano Lama alla Sapienza; alcuni lavorano nella redazione di “Lotta Continua”, ma per quel loro “pazzeggiare a bischero sciolto” la sintonia con i capi della disciolta organizzazione non è delle migliori. Fanno poi un giornale (OASK?!) che si pone “contro l’impaginazione al potere”, contro cioè le omologanti gabbie espressive sia della grafica sia dell’ortografia; e infine occupano uno stabile, forse del Vanvitelli, “quindici stanze per quindici istanze di libertà”, cioè tre piani con attico e due terrazze a pochi metri da Piazza Navona. Buona parte del materiale d’epoca è circolato per quella casa. L’esigenza di ricordare, di ricomporre gli “incerti lacerti”, nasce in parte dal fatto che i giornali hanno poi ridotto gli eventi “a due o tre personaggi di parata che se la suonano e se la cantano”, ma ancor più forse dal bisogno di tener fede al ritaglio anonimo riesumato da quella casa del desiderio: “Non tollereremo che esista uno storico che, (…) offrendo i suoi servizi alla lingua del potere, ricostruisca i fatti innescandosi sul nostro silenzio”. Un tono inaspettato per gente che pareva prendersi così poco sul serio e la convinzione che solo quella fatta dall’interno possa essere una ricostruzione onesta e veritiera.