Paolo Guzzi, Sperduti nello spazio

01-01-2010
Nel sogno dell'Avatar, di Beniamino Vizzini
 
Sperduti nello spazio di Paolo Guzzi è il titolo del suo nono libro di poesia, pubblicato da Piero Manni, il più recente del 2009, che giunge quindi allo sbocco di un percorso intrapreso già dagli anni Settanta e, coerente con un’idea d’utopia poetica volta alla demistificazione del mondo in cui l’esistenza quotidiana vive come dentro ad un sortilegio, dove tutto è falso. Che la poesia , al pari dell’arte, possa ancora proporsi in antitesi allo spirito del mondo e che, al pari dell’arte, possa perfino concedersi all’esperienza diretta del sentire soggettivo con quella autonomia e spontaneità necessarie a prendere le distanze dalla falsità del tutto, non solo è dubbio ma è divenuto realisticamente molto improbabile. La soggettività stessa altro non è ridotta ad essere che il riflesso condizionatodell’inganno oggettivo, per cui non v’è alternativa al soggettivismo lirico al di fuori della facoltà di decidere fra una sua trasgressione reattiva al dominio metasemantico della tradizione poetica o un suo disconoscimento nel dominio asemantico del significante, elemento formale d’una poiesi totale del Senso insignificabile nei codici costituiti della comunicazione.
Paolo Guzzi poeta, traduttore, critico teatrale, saggista, si ritrova esattamente all’incrocio fra queste due vie; quella che ha chiamato, con una definizione presa in prestito da Giovanni Fontana, teatro del verbo visivo e quella, da lui personalmente praticata, del rapporto critico con la tradizione del verbo poetico, reinventata in “una scrittura acquietata nei suoi processi contaminativi, nei suoi pastiches”, come ha osservato Donato Di Stasi, in una sorta di sperimentalismo placato, per cui “non siamo p. 63 - dipendente , al contrario ci troviamo al cospetto di un poeta maturo” . Scrittura quella di Guzzi che, peraltro, come dice Mario Lunetta, “non fa, molto laicamente, differenza di registri, né allestisce gerarchie di status linguistico. L’intera scala delle funzioni simboliche della lingua (langue, parole, gerghi specifici) vi è presente con lo stesso diritto di cittadinanza, com’è d’altronde ovvio in un autore che del pastiche e della contaminazione fa da sempre uno dei moment-clou della propria strategia” . Strategia che ogni volta, all’uscita di ogni nuovo libro, si replica in forme sempre creative, giusto insino a questo suo ultimo libro Sperduti nello spazio, diviso in undici Ambienti e in diciannove Avatar. Qui la scrittura si fa interamente flusso quasi visivo , di cui Lamberto Pignotti aveva in altri ambiti rilevato la tecnica, omologabile a quella d’una camera televisiva, che riprende la realtà con piani sequenza rapidi e stacchi veloci, solo che qui la realtà è sparita, implosa nello spazio nel quale tutti noi siamo perduti, lo spazio elettronico. Gli Avatar della poesia di Paolo Guzzi non sono le incarnazioni d’una divinità indù, ma le personificazioni o gli alter-ego virtuali del poeta (“immagina alter-ego che ti rilevino, che ti proiettino lontano” Diciannovesimo Avatar, “bruciare”) e gli Ambienti non sono quelli che ci stanno attorno in questa terra (“lost in space mentre, / avanza il deserto per le bombe” Quinto Ambiente, “desert storm”) ma sono gli ambienti di quel mondo parallelo in cui “tutto è riprodotto come fosse vero / mondo concettuale imitato / ma senza rapporto con il vero: / c’è tutto: il bar e la cartoleria, / il mare e il monte, / ma, / l’uomo non c'è, o non si vede” (Ottavo Ambiente , “mondo parallelo. Noi siamo sperduti in questo spazio, profughi e fuoriusciti dallo spazio della vita reale; non ci salva più nemmeno la fuga dell’immaginazione imbrigliata, ormai come è, “nelle trame dello spazio cibernetico, / luci e suoni, come nel sogno / ma senza sognare” (Settimo Ambiente, “naso”). Ciò che risale alla superficie del gioco poetico o che si rende percettibile alla superficialità giocosa di un’individuazione tragico-ironica nelle pagine del libro di Paolo Guzzi è una corrente collettiva sotterranea di sradicamento completo delle donne e degli uomini, di deriva verso una vita umana senza esseri umani che, proprio come il cancro / ultima reazione vitale del corpo afflitto da una vita insensata, è vita che esclude la vita propria dell’essere nel quale si è sviluppato. Spazio extraterrestre, forse, o addestramento in vista del giorno in cui la vita umana esisterà in uno spazio al di fuori del pianeta terra. E frattanto “il poeta, attraverso il suo avatar, vive mille vite, create per distrazione, per divertimento” con l’aiuto della poesia o, della dissimulazione poetica.
L’immaginazione, allora, sedotta dal verso compie una sottile inversione di marcia, una diversione del divertissement in serietà del pensiero che, così, diviene inavvertita coscienza di quanto non sembri non accadere al di sotto dei molti mondi paralleli che noi frequentiamo. “Frequentiamo molti mondi paralleli, in fondo, /dove non ci tocchiamo, non possiamo, /come ologrammi ci obbligano a comparire / in strani luoghi stranieri a noi stessi” (Ottavo Ambiente, “mondo parallelo ma...”).
Si attua, in altre parole, tramite il verso, una specie di mise en abime dell'immaginario contemporaneo che rispecchia archetipi dell’immaginario collettivo, deformatisi nel rispecchiamento dell’immaginario tecnologico, riverberato allo specchio deformante dell’interiorità individuale. La scena finta di un mondo irreale messa in versi derealizza quell’irrealtà e, se “l’importante è che l’irrealtà illuda il vero”, nell’illusione poetica della parola in versi potrebbe dunque ri-velarsi la verità. Come di solito avviene in poesia è il velo dei versi che traluce schegge di riflessione sul mondo sospeso al di sopra della sua oscurità. Nella poesia di Paolo Guzzi i versi sono, per così dire, nascosti e, a loro volta, protetti e velati all’interno di frasi, come pagliuzze d’oro nella sabbia, in cui sono sepolti o come nel brusìo di sottofondo di un tono colloquiale percorso a tratti e sbalzi da sonorità d’altre sommesse melodie, quella di un novenario, due endecasillabi e un settenario con rima alternata, ad esempio, come in questa frase: “nelle lunule della chiesa, si illuminano/nicchie colorate: santi e madonne ammoniscono, / trasparenti vetrate” (Diciassettesimo Avatar “il prelato”). Vi sono anche versi sonanti, gravidi di allitterazioni e sinestesie, quali: “preferisci il profumo delle erbe di Provenza, / l’odore aspro del ginepro e del rosmarino, / le visive fluenze e flatulenze di un profumo indiano che/ fuma" (Settimo Ambiente, “naso”). Vi sono armonici alessandrini che esplodono improvvisi e aggrediscono il lettore di sorpresa: “Sei al Museo di Cluny, ricorda le poche vestigia romane, / e le meraviglie medievali del liocorno” (Quarto Ambiente, “boulevard St. Germani”). Vi sono neologismi come stelle rare nella costellazione d’una “notte bianca, regina dell'insonnia: /nottìluche dal mare salgono/ fluorescenti” (Undecimo Avatar, “notte bianca”).
La poesia è, insomma, contenuta e raccolta, come un soffio rabbrividente, dentro alla piana colloquialità d’una parola che ostenta prosaicità disincantata e, quasi rassegnata al racconto della menzogna quotidiana. In versi asconditi e segreti l’avatar che sogna senza sognare scopre la vacuità del suo sogno e se ne spoglia rimanendo, per pochi attimi, stordito dalla verità del risveglio, finché subito non è pronto a ricadere nella successiva illusione e, poi ancora, nella serie infinita delle susseguenti facili evasioni, e rappresentazioni, pur di non tenere gli occhi aperti su quel che resta della propria vita estinta.