Sperduti nello spazio
Sperduti nello spazio
PRIMI VERSI
Primo Avatar
il poeta: endecasillabi e altri ritmi
Samarcanda, Baku nomi che tornano
nei suoi viaggi virtuali: città viste,
ora inseriti sensori sotto pelle,
ambiente noto e ignoto dei sogni.
Viaggia da fermo, legato
a questa nuova vita, vive nel nulla,
immobile si muove nello spazio,
pensa senza pensare di pensare.
Perde a volte nel sonno parole e versi,
come perdesse urina e sangue,
inventa ritmi, mentre dorme seduto,
al mattino dimentica, tra fantasmi della notte.
Tenta di ricordare ma non ha sognato:
“quali colombe dal disio chiamate”
non ha inventato:
“un coup de dés jamais n’abolira le hasard”
non ha scritto:
“la nera, smagrita e tisica / guarda da lontano
i palmizi assenti della superba Africa”
Perde a volte nel sonno parole e versi:
colano come una bava di luce
sul cuscino che sa di detersivo.
Al risveglio, la perdita è poca,
la mancanza non si avvertirà,
non potrà rammaricarsi
per una dispersione di genio,
un rivolo di urina che attraversa la strada:
non ha composto Dora Markus, né La ragazza Carla.
Allora poco importa se il sogno, ominoso,
diventi ogni mattina più confuso ed incerto:
è sufficiente tentare di ricordare,
tornato ad essere ciò che si è,
con tutte le difficoltà,
queste difficoltà che, nel sonno,
mentre plani sul mare, sembrano nulle:
cadute dopo il volo e il sussulto ripete
salti di ramo in ramo del gorilla.
Sullo schermo passano immagini del poeta,
il critico affettuoso, ora lo piange:
Perché non t’hanno elogiato da vivo?
Il poeta si alza dal suo strano letto,
ridendo ringrazia: i capelli bianchi,
lunghi sul collo, il viso emaciato,
saluta sorridendo, con la mano,
allontana, in dissolvenza, la sua derelizione,
e balla, come nel film di Woody Allen, oh yes.
Cresce di statura, lo guardiamo dal basso:
vola la sua testa scarmigliata oltre le nuvole.