Nel cuore di Bari la misera epopea delle cape guastate, di Rosario Rampulla
Chi sono queste cape guastate? Come capita sovente nel leggerne le «gesta», sono quei personaggi che, istintivamente, ti suscitano simpatia. Pur se indolenti, pasticcioni, approfittatori. Difficile, del resto, sottrarsi a sentimenti indulgenti verso la miseria umana di chi, ex detenuto, prova (ma ci prova poi davvero?) ad emanciparsi da strade poco pulite.
È Piero Rossi, avvocato barese, a trascinarci dentro questa storia di straordinaria, raccontando l'ascesa e, soprattutto, la caduta di una cooperativa destinata a pilotare il reinserimento lavorativo di personaggi dalle storie impensabili. Sotto la spinta di Don Mimmo la cooperativa si scontra con piccole e grandi difficoltà, in cui tra teorie de «gli amici degli amici» o del «tanto per oggi abbiamo lavorato abbastanza» le cose non possono che finire male. E allora si torna al concetto iniziale: con «Cape guastate» si ride, certe volte di gusto grazie agli inserti linguistici in barese stretto. Una lingua dura, che si attorciglia su sé stessa. Che ti colpisce in piena faccia con la violenza di uno schiaffone improvviso. Ma quello che ha fatto Rossi (con risultati soddisfacenti) è stato unire e cucire tanti microcosmi disperati e sconfitti, creando una tela fitta di suggestioni letterarie ma che (e questo è bene sottolinearlo) non si rifugiano mai nel grottesco per cancellare la realtà, specie se dura o violenta. Anzi, il grottesco diventa chiave di lettura alternativa per restituirci un mondo che non ci appartiene, che non vogliamo vedere. Ed è questo il problema. Questo mondo esiste eccome: scorre a pochi passi da noi, ma non sempre siamo pronti a vederlo.