In quel quartiere dove spesso “la scuola è per i fessi… e il lavoro pure” il parroco Don Mimmo Belviso si batte, con l’ostinazione dei giusti, per avviare una cooperativa in cui occupare ex carcerati. E appare subito evidente che non serve un’impresa leggendaria, basta una di pulizie. Evitando l’ intrusione dei clan e delle cosche locali, cerca di impiegare piccoli malviventi e altri disgraziati, che a gran voce chiedono di “faticare”. Hanno una dignità, loro, vogliono lavoro, non sovvenzioni né misericordia, e né, come le tartarughe, ritrarre la testa nel carapace della fede :“Don Mì, mò t’u sò ditte. Sta la capa uastàte. Se non possiamo mangiare, proprio la capa alla messa possiamo tenere?” Tra problemi amministrativi, gestionali e burocratici, la cooperativa tuttavia nasce e, a suo modo, si sviluppa. Dunque partono improbabili squadre di lavoratori ‘armati’ di pale, ramazze e decespugliatori, a dare senso e vita alla storia, e lo fanno nella loro lingua; un dialetto primitivo, a tratti non comico; contraltare, come nelle intenzioni dell’autore, della pomposità del linguaggio tecnico che campeggia sontuoso tra le parentesi dei capitoli.
Massimo Silvestrini
La cifra dell'autore è una singolare mistura tra gergo specialistico e incursione nella fiction, mentre la lingua dei suoi personaggi batte dove la vita duole e vuole. Una prosa dialettale, ironica, beffarda, carognesca, affilata e irredimibile come un destino.
Oscar Iarussi