Piero Rossi, Cape guastate

29-07-2010

L'esperimento di Cape guastate, di Patrizio Gonnella

E' un gioco a incastri il romanzo di Piero Rossi Cape guastate, Manni editore, 2010. Si incastrano lingua italiana e dialetto barese, fantasia e realtà, romanzo e saggio, biografie personali e biografie collettive, storie di vita individuali e lavoro sociale. E' un esperimento originale che prova a tradurre il linguaggio specialistico, neutro e barboso che è alla base del lavoro di una cooperativa sociale – Piero Rossi è di mestiere giurista e cooperante – in fatti veri aventi a oggetto esistenze complicate. "Patti chiari e amicizia lunga" è il titolo del quarto capitolo di "Cape guastate".
Il sottotitolo, ovvero la sua decodificazione nel linguaggio tecnico dell’imprenditoria sociale, è "contratto sociale e regolamento interno".  
Contratti e regole non sono proprio i contenitori formali più amati da chi è abituato a vivere in modo anarchico. Il lavoro di una cooperativa composta da ex detenuti o impegnata nel sostenere ragazzi difficili di periferia è un lavoro culturale prima ancora che sociale. Non è ovviamente lo stesso tipo di lavoro se svolto a Varese o a Bari. Qualora fosse svolto a Bari non sarebbe lo stesso se la sede della cooperativa fosse nel popoloso e popolare Cep oppure nel residenziale quartiere Poggiofranco. A Varese il problema degli adolescenti è l’alienazione che porta loro a tirare i sassi giù dal cavalcavia ammazzando a caso persone ignare.
A Bari il problema è invece l’emancipazione di intere fasce giovanili da carriere preordinate di deviazione sociale e dall’etichettamento di massa. Cape guastate si muove nel solco dei film di Alessandro Piva. I suoi personaggi non sono macchiettistici, sono tragicamente veri. Nelle realtà compromesse delle periferie urbane, ironia e dramma si fondono e confondono sempre. Così avviene per Vito detto Popizza, Francesco detto 'Ciccille u russe' e Vincenzo detto 'Mezzabbòtte'. Don Mimmo, prete di periferia, è anch’esso personaggio di una realtà allo stesso tempo vera ma anche capace di non perdere i connotati della creazione di fantasia. Il libro resta essenzialmente un romanzo. Non supera mai il confine del saggio.
 Il cuore del racconto è la lingua. Ho vissuto a Bari i primi venticinque anni della mia vita. Mio padre usava il linguaggio che si legge in Cape guastate. Lo usavamo tutti noi, dalle medie sino all’università. Lo usavano studenti e professori, padroni e operai. Il linguaggio a Bari – accompagnato da gestualità, frasi fatte e intonazione – è stato un linguaggio di integrazione tra le classi. In altri posti la lingua è ancora oggi strumento di esclusione sociale.