Sandro Dell'Orco, La dimora unica

14-01-2010
Un teatro che recita il teatro, di Pierfranco Bruni

Il teatro come recita della vita o come recita nella vita. La scena è il segno che traccia viaggia nel tempo. In questi viaggi ci sono le pause, le attese, gli spazi. Ovvero dentro il tempo vi sono le “dimore”. Quelle dimore che ognuno di noi considera uniche perché noi siamo unici dentro il nostro cuore. Anzi. Crediamo di essere unici inventandoci il senso e la perdita che convivono. Nel testo di Sandro Dell’Orco, “La dimora unica”, (Manni, Pp. 120, euro 14,00) la metafora della dimora è un gioco ad incastro tra la recita finzione e la vita enigma.
Un testo teatrale in cui la rappresentazione non è solo tra i personaggi ma soprattutto nella enunciazione dei percorsi narranti. D’altronde Dell’Orco (nato a Catanzaro e vive a Roma) è uno scrittore di romanzi (va ricordato soprattutto “Delfi” del 2007) e trova in questo nuovo libro la messa in scena di una visione narrante che parte da un progetto di scrittura. La recita, in uno scrittore come Dell’Orco, può diventare più della vita stessa, soprattutto quando l’unicità delle radici è stata abbandonata. In questo abbandono fisico e metaforico, se si vuole anche onirico e metafisico, la luce si confonde con il buio e il mistero può sembrare una pagina dell’ambiguità quotidiana che trasformiamo letterariamente in enigmaticità.

Forse la scrittura è di più. È un inciso al quale Dell’Orco crede. Ma forse si va oltre. Come è possibile andare oltre viaggiando tra i mari della nostra esistenza credendo che la nostra esistenza sia unica, visibilmente ancorata al nostro sguardo, interiorizzata nel nostro coesistere, ovvero nell’uomo che è scrittore e nello scrittore che si perde nell’essere uomo. Gli incastri dividono la rappresentazione. Perché è proprio in questi incastri che i tasselli hanno bisogno della misura in uno spazio predefinito o da definirsi. In questo spazio si consumano le relazioni che sono sempre particelle di tempo. Tempo immaginario o tempo fisico.

Sandro Dell’Orco va su queste strade della teatralizzazione della letteratura. Kafka viveva l’incubo dell’imprevisto. Buzzati quello dell’attesa. Ionesco quello della tragedia. Pirandello quello dell’ironia – umorismo. Beckett nella ricerca della follia dei personaggi e Sartre superando il muro si bloccava nella tensione della nausea.

Esistenze al bivio o esistenze sul teatro teatralizzando i luoghi, i viaggi, il vuoto, l’assenza in una dimensione lirica dell’assurdo. Perché abbiamo bisogno di ritrovarci in una dimora? È qui il punto. Ci sono dimore abbandonate e dimore che non smettono di vivere nel nostro essere – spazio. Come sempre nella storia dei personaggi del romanzo il palcoscenico è dentro i simboli che diventano veri e propri archetipi.

Quale straripamento delle coscienze è possibile arginare nella letteratura che diventa scena? La letteratura è memoria e se non è tale bisogna poter decidere se viverla come esproprio o come divisione nelle diaspore che lo scrittore (o l’autore) cattura e proietta al di fuori di sé. La fantasia ha il sopravvento. Altrimenti che letteratura sarebbe? Se non vogliamo chiamarla fantasia chiamiamola visione onirica.

La realtà è altro. Tra il destino e l’avventura. O forse un tentativo di profezia. Simone de Beauvoir pensando a Sartre ha definito il suo viaggio tra i tagli della vita – letteratura. Ecco perché, nel nostro tragico vivere ironico e sospeso traliccio esistenziale il sogno è il superamento di ogni cortocircuito al quale si assiste nel reale movimento della realtà stessa. L’immaginario è una scenografia di vita nella nostra unica dimora fatta di tempo, di morte e di vita. Così nella mia lettura di un testo bello, articolato e ben costruito sul piano della teatralità qual è, appunto, questo di Sandro Dell’Orco.